LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Conversazione con il giurista François Ost

Diritti della natura, riscoperta dei beni comuni
e un’informazione responsabile

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02 luglio 2020

Un’economia della “casa comune” per riscoprire un mondo più desiderabile per tutti. Questa la ricetta proposta da François Ost, giurista, professore di filosofia del diritto alla Université Saint-Louis Bruxelles, autore di molti volumi dedicati all’ambientalismo, alla traduzione, al senso del diritto nella società attuale.

Con lui abbiamo cercato di capire quali sono le principali sfide poste dalla pandemia oggi, sul piano politico e giuridico. E soprattutto quali sono le prospettive del “dopo” che egli vede all’orizzonte di un mondo sempre più dominato dalla violenza e dalla paura.

La pandemia trasforma il mondo che conoscevamo. Lei crede che le misure prese dai governi per far fronte alla crisi sanitaria avranno un’incidenza sui programmi per la protezione dell’ambiente? La pandemia è l’occasione giusta per trasformare i nostri sistemi di produzione e renderli più rispettosi dell’ambiente?

È possibile mostrare che esiste un forte legame strutturale tra la crisi ambientale e la crisi sanitaria del covid-19, e questo soprattutto a causa della coabitazione non naturale tra umani e animali selvaggi, e anche a causa dell’intensificazione massiccia degli spostamenti sul pianeta. Idealmente, si potrebbe dunque credere che le risposte alla crisi sanitaria debbano anche favorire la lotta in favore dell’ambiente. Ma temo che questo argomento non regga. Se i governi hanno reagito in modo così forte e le popolazioni si sono generalmente ben adattate a misure tanto restrittive delle nostre libertà, questo è avvenuto, mi sembra, per tre ragioni molto lontane dalla virtù ambientalista: erano in gioco la nostra salute e la nostra sopravvivenza, un pericolo vicino, immediato e concreto; tutti erano ugualmente minacciati, anche i dirigenti e i privilegiati; infine, la propagazione del virus è stata fulminea, anche se la sua letalità non era poi così eccezionale. La “crisi”, nel doppio senso di prova e di scelta, ci pone di fronte a un’alternativa: la continuazione del mondo di prima, leggermente modificato, ad esempio nel senso di una rilocalizzazione della produzione delle medicine essenziali e la rivalorizzazione degli “invisibili” riscoperti in questa occasione: il personale sanitario, gli assistenti a domicilio, eccetera; oppure, la scelta di cambiare paradigma. A sostegno della prima ipotesi, è molto probabile che la crisi economica che si annuncia (fallimenti a catena, perdite di lavori, abbassamento del potere di acquisto) susciti una reazione limitata: le preoccupazioni della fine del mese avranno la meglio sulle preoccupazioni della fine del mondo. A sostegno dell’ipotesi ottimista, invece, si può ricordare che all’indomani della seconda guerra mondiale c’è stata una grande ondata di idee nuove e generose, come l’organizzazione di sistemi di previdenza sociale, la costruzione dell’Europa, la decolonizzazione, la governance dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Sul clima, le buone idee non mancano; possiamo indicare ad esempio in Francia il documento recentemente prodotto dalla Convenzione cittadina per il clima. Queste idee però non potranno realizzarsi se non ci sarà la connessione tra un forte cambiamento delle mentalità, cui l’enciclica Laudato si’ contribuisce enormemente, e un reale movimento popolare; la mobilitazione dei giovani e il loro desiderio di un cambiamento immediato dello stile di vita sono segnali incoraggianti a tal proposito. Al cuore di questa trasformazione deve esserci l’idea di responsabilità, che è al crocevia tra l’ispirazione etica, la pratica politica e la tecnica giuridica. La posta in gioco deve essere quella di trasformare le molte dichiarazioni di responsabilità limitata, che spesso conducono a una irresponsabilità illimitata, in una reale assunzione di responsabilità in termini giuridici.

I diritti della natura sono uno dei suoi temi di ricerca privilegiati. Come ripensare questa nozione alla luce della pandemia?

Poco tempo fa era ancora un tema marginale ed esotico. La rivendicazione della personalizzazione della natura e il riconoscimento dei diritti ai suoi componenti conosce oggi un’ascesa spettacolare, soprattutto con importanti consacrazioni in Nuova Zelanda e Colombia. In passato ho a lungo combattuto questa idea pensando che la natura considerata come “soggetto” non ci facesse in realtà uscire dal dualismo classico il cui altro polo è la natura “oggetto”, quella che sfruttiamo a oltranza. Preferivo un modello più dialettico; la natura pensata come un “progetto” che implica una grande responsabilità, pur preservando la specificità della condizione degli umani responsabili. Oggi confesso che sono molto meno reticente rispetto a questa idea di una personalizzazione della natura e quindi il conferimento ad essa e ai suoi componenti di specifici diritti. Questo soprattutto per ragioni pragmatiche: è un’idea che dà molti risultati sul piano della ricerca. Tuttavia, anch’essa pone dei problemi: i diritti della natura e dei suoi componenti possono sempre entrare in conflitto con quelli degli esseri umani. Inoltre, le azioni in giustizia della natura dovranno sempre essere compiute da uomini e donne, e anche questo pone dei problemi. Vorrei sottolineare il pericolo di esacerbare la logica individualista soggiacente alla rivendicazione di diritti soggettivi; quando leggiamo attentamente i testi dei pensatori sudamericani della Pachamama (dea della fertilità venerata da indigeni andini, ndr) ci si accorge che le idee centrali sono quelle della solidarietà del vivente, dell’armonia delle creature, così come i doveri e le responsabilità correlative ai diritti. La natura è accettata come un interlocutore vero, una persona autentica.

Il tema del rispetto della “casa comune” è particolarmente caro a Papa Francesco. Che lezione possiamo trarre dalla «Laudato si’», secondo lei, per far fronte alla crisi attuale? In altri termini, il capitalismo occidentale è oggi di fronte a una sfida senza precedenti: come cambierà?

Il tema della “casa comune” trova un prolungamento diretto nella nozione giuridica di “beni comuni”, oggi sottolineato da molti giuristi. Come nella vecchia nozione di “patrimonio”, si tratta di accordare uno statuto particolare a risorse che sono il prolungamento o la condizione della personalità umana; delle risorse preziose, di cui è permesso di consumare i frutti, ma di cui anche bisogna trasmettere il “capitale”. Ad esempio, l’Antartico, i grandi fondali marini, ma anche tutto quel che decidiamo di sottrarre al diritto di dilapidare e distruggere, che è ancora un attributo della proprietà. Penso soprattutto alle risorse naturali che sono oggetto dell’“uso civico” in Italia (legge del 20 novembre 2017). Con la nozione di “beni comuni” l’accento quindi si sposta dalla appropriazione esclusiva all’uso e alla gestione collettiva. Possiamo pensare all’open source in materia culturale e all’economia collaborativa delle enciclopedie come Wikipedia, ma anche, in materia naturale, alla gestione collettiva delle zone di pesca, delle foreste e di molte altre risorse come quelle studiate dal premio Nobel per l’economia E. Ostrom. L’economia dei “beni comuni” esprime dunque la solidarietà del vivente di cui parlavamo prima; essa genera pratiche generative più che predatrici ed estrattive. Essa insiste sul fare più che sull’avere e dona un senso a molte delle nostre pratiche quotidiane: produzione, consumo, spostamento, tempo libero, eccetera. Noto anche che questo tipo di economia dei “beni comuni” è la faccia operativa della personalità della natura poiché ci rendiamo conto che quest’ultima si realizza concretamente soltanto attraverso pratiche collaborative di coloro che occupano questi spazi.

Ci può dare un esempio concreto di questo modello economico?

Questo paradigma dei “beni comuni” dovrebbe essere applicato concretamente allo statuto delle medicine essenziali che occorrerebbe sottrarre alla logica privatistica dei brevetti. Ad esempio, questo dovrebbe accadere con il futuro vaccino contro il covid-19. Certo, non bisogna scoraggiare lo spirito di impresa. Occorre invece colpire il capitalismo finanziario che ne deforma lo spirito trasformandolo in una logica di accaparramento suicida. A tal proposito, i governi dovrebbero velocemente dotarsi di una forma di prelievo fiscale in grado di combattere il capitalismo finanziario; una tassa globale sulle “gafa” (le grandi aziende tecnologiche, ndr) e sulle transazioni finanziarie sarebbe già un passo nella buona direzione. La capacità di tassazione è sempre stata una delle principali prerogative dei poteri pubblici nella storia; poiché oggi la società è sempre più mondializzata, è necessario che la governance, a cominciare dalle forme di tassazione, cambi anch’essa. L’alternativa è la guerra di tutti contro tutti. L’economia neo-liberale parlava di “tragedia dei beni comuni”, per cui tutto quel che è gestito in comune è destinato a distruggersi; l’attualità però dimostra il contrario, almeno in certi settori vitali.

La pandemia pone anche un altro problema: quello della buona informazione. Lei crede che il mondo post-pandemico sarà un mondo più cosciente della distinzione tra buona e cattiva informazione?

Le fake news, il complottismo e il cattivo storytelling creavano scompiglio già prima dell’epidemia di covid-19. Basti pensare a tutti i discorsi degli scettici sul cambiamento climatico. Ne conosciamo la causa principale: il predominio dei social network fa sì che le persone si informino cercando soprattutto di trovare conforto alle loro paure, soddisfazione per i loro desideri e fantasmi, e questo su siti che confermano i loro pregiudizi. Questo fenomeno è strettamente legato alla perdita di credibilità delle istanze ufficiali della produzione del sapere dovuta a interessi finanziari e/o geopolitici. È dunque un compito politico essenziale quello di realizzare meccanismi di critica dell’informazione. Questo significa: educazione ai media, regolamentazione dei social, siti di discussione pubblica delle affermazioni dei politici. Questa etica della semplice fattualità è essenziale, ma non è abbastanza. Bisogna essere coscienti del fatto che l’essere umano, essendo in primo luogo un essere di immaginazione, un homo fabulans, è spinto ad accordare la sua preferenza anzitutto a una credenza e non a un fatto, a un racconto piuttosto che a una dimostrazione. Non potendo verificare da soli e subito l’essenziale dell’informazione, siamo inclini a credere a quel che meglio corrisponde ai nostri pregiudizi e fantasmi. Questo vale anche per gli scienziati; le ricerche non sono mai neutrali. Con Habermas, dobbiamo riconoscere che la scienza persegue diversi “interessi di conoscenza”; al minimo un interesse “tecnico” e un interesse “emancipatorio”. Se questo è vero, allora una nuova priorità s’impone, accanto alla critica dell’informazione di cui parlavo prima. Questa nuova priorità è la produzione di uno storytelling che dia senso alla nostra epoca. Abbiamo bisogno di racconti che siano capaci di affrontare le paure collettive evocando prospettive solidali, esigenti e mobilizzatrici. Delle prospettive che rendano questo mondo desiderabile al prezzo di sacrifici importanti e di uno stravolgimento dei nostri modi di vita. Un testo come la Laudato si’ risponde proprio a questa esigenza.

di Luca Possati