La voce di un missionario in Kenya

Così Kababa ci guariva i ritardi del cuore

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03 luglio 2020

Ero giovanissimo quando il Vescovo mi ha mandato in missione in Africa, a Nyahururu, una piccola cittadina sull’equatore, in Kenya. Vi sono rimasto vent’anni. All’inizio del mio ministero in missione, passando per la benedizione delle case, ho incontrato Thomas che era tenuto nascosto in un tugurio sporco e buio dove viveva una ben misera vita. La sua famiglia si vergognava di lui e lo considerava una terribile maledizione di cui nessuno doveva sapere. L’incontro con Thomas ha cambiato la mia vita e la sua condizione mi ha spinto a dare vita al Saint Martin Chatolic Social Apostolate, un’organizzazione che tuttora si occupa delle circa 2.000 persone con disabilità della zona dove abitavo, attraverso una rete capillare di 330 volontari, uno per ogni piccola comunità cristiana.

Una delle attività più importanti che facevamo, era quella di organizzare corsi di formazione dove avevo la possibilità di incontrare genitori di ragazzi con disabilità e volontari di tutte le confessioni, anche di religioni diverse. A tutti, indistintamente, annunciavo il Vangelo delle beatitudini. Annunciavo a questi genitori, i quali spesso si sentivano abbandonati e angosciati nel loro dolore, che i loro figli non erano una maledizione, ma una benedizione.

Sentivo l’urgenza e la necessità di dare più credibilità a quel Vangelo che pretendevo di annunciare e mostrare la mia fiducia in Gesù vivo e presente nelle persone più deboli. Allora, ho sistemato una vecchia casa e sono andato a viverci insieme a Musa, Kababa, Jane, Wachuka e Paul, tutte persone che presentavano una disabilità intellettiva, insieme a difficoltà motorie, per formare con loro la comunità di Effatha. È stata la scelta più bella della mia vita!

Nella comunione del vivere insieme si diventa una famiglia e cadono tutte le barriere: cade la barriera della disabilità bisognosa di aiuto ed emerge la persona bisognosa di amore; cade l’ossessione di fare il benefattore ed emerge la gioia di essere fratello; cade la presunzione di insegnare a vivere a chi ha una disabilità intellettiva ed emerge l’umiltà di imparare proprio da queste persone a essere felici.

Vivendo con loro ho scoperto un mondo di dolore, angoscia e disperazione, ma anche un mondo di bellezza, gentilezza e tenerezza. Ho scoperto che i poveri sono i maestri di cui tutti abbiamo davvero bisogno, perché non aspirano in nessun modo al potere e al successo, o a diventare più ricchi e più importanti, ma cercano solo l’amicizia e l’amore.

Le persone con disabilità intellettiva vivono la relazione con Dio nell’immediatezza della loro intuizione, così come fanno i bambini nel rapporto con la mamma. Sanno, per esperienza, di non bastare a loro stessi, di avere sempre bisogno dell’altro, ma vivono questa loro radicale povertà come la più grande opportunità per farsi aiutare per arrivare dove, da soli, non riuscirebbero. Questa condizione facilita in loro una convinzione profonda del cuore, non frutto di ragionamenti, ma di un’intuizione dell’amore: si tratta della felice certezza di aver bisogno di un Padre. Vivendo nella libertà questo loro bisogno, si dispongono con naturalezza all’incontro amorevole con il Padre che diventa un’esperienza meravigliosa di comunione e di gioia. Musa, ad esempio, esprime la sua confidenza in Dio proprio chiamandolo Daddy (“papà”).

La forma di preghiera che caratterizza la comunità Effatha è quella dell’adorazione davanti all’Eucaristia. Ancora oggi, per me, questo modo di pregare rimane il più bello perché si accontenta dell’essenziale e ha bisogno solo della presenza e del silenzio. Nella comunità, l’adorazione è anche un tempo di autonomia, dove ognuno vive la sua relazione con Gesù in solitudine: non è necessario leggere, capire o saper fare delle cose. Nessuno ha bisogno di essere aiutato e nessuno deve sentirsi in dovere di aiutare. Nell’adorazione siamo tutti figli, tutti uguali davanti a Lui.

Ho imparato la fiducia e l’abbandono nella preghiera di adorazione eucaristica, guardando Jane che pregava. Jane è una giovane donna, con paralisi cerebrale dalla nascita, ed è una delle vittime degli scontri tribali che hanno messo in ginocchio il Kenya qualche anno fa. Quando l’abbiamo accolta era terribilmente debole e denutrita. Soprattutto era smarrita e triste: vedersi bruciare la casa ed essere costretti a fuggire è dura per tutti, ma per Jane, nella sua debolezza, perdere quei riferimenti familiari, di cui aveva bisogno per vivere, significava cadere nell’angoscia e nella disperazione. Ha ritrovato casa nella nostra comunità Effatha ed è diventata una persona felice. Non sa parlare, ma ha una grazia particolare che esprime nella gioia di accogliere le persone e farle sentire amate.

Nella comunità Effatha, come capita in molte famiglie, ci ritrovavamo tutti assieme solo verso sera. Dopo cena e prima della preghiera si lavavano i piatti: ognuno aveva un compito ed era un momento comunitario di grande gioia e creatività. Jane era la più scatenata: urlava la sua gioia, ci schizzava l’acqua addosso e contagiava tutti con le sue risate a crepapelle. Quando entravamo in cappella, gli ospiti che ci facevano visita per la prima volta, si aspettavano una preghiera disturbata e senza pace, in quanto Jane era iperattiva e non sapeva stare ferma un momento. Invece, appena si accendevano le candele e si spegnevano le luci, l’euforia si trasformava. Una sorta di prodigio. Jane si abbandonava tra le braccia di chi le era più vicino e fissava l’Eucaristia in un dolce silenzio.

Era la più raccolta, la più vicina a Gesù. Mi sono domandato spesso: «Chissà come comunicheranno quei due?». Forse come un bimbo con sua madre. Forse come Gesù bambino con Maria, sua mamma. Nessuna parola, ma solo presenza e silenzio. Il resto non conta. L’ultimo canto della nostra preghiera serale era il Magnificat. Mentre gli altri erano ancora seduti sul tappeto, Jane riconosceva la canzone e scattava in piedi. Sembrava voler danzare il canto di Maria, faceva dei gran giri su se stessa e poi veniva ad abbracciarci. Uno a uno. Era per tutti noi un momento di grande tenerezza, che raccoglie il senso della preghiera: sentirsi amati dal Padre e portare il suo abbraccio ai fratelli. Uno a uno. Jane non sapeva dire nemmeno una parola, ma il suo abbraccio raccontava la delicatezza della sua spiritualità fatta di piccoli gesti.

Un altro aspetto fondamentale della preghiera, che trasforma le nostre relazioni con chi ci vive accanto, è il perdono e la riconciliazione: qui vi devo parlare di Kababa, un uomo che sa perdonare. La mamma di Kababa lo faceva vivere con le capre e le pecore. Dopo che lui è venuto a vivere nella nostra comunità, ha impiegato due anni per imparare a parlare e a comportarsi dignitosamente e poi altri due anni per arrivare a perdonare la sua mamma, che oggi finalmente riesce a rivedere volentieri. Questa esperienza di riconciliazione lo deve aver segnato così profondamente che ogni sera, all’inizio del tempo di silenzio e adorazione, Kababa non riusciva ad entrare nella preghiera se sentiva di avere dei contrasti non risolti con gli altri membri della comunità. Perciò iniziava sempre chiedendo perdono, spesso con le lacrime agli occhi, per le offese che riteneva di aver arrecato a qualcuno dei membri della comunità. In quel momento, Kababa dava voce a tutti noi, incapaci del suo coraggio, ma desiderosi di ricominciare a costruire le relazioni spezzate e guarire i cuori feriti.

Spesso Kababa smascherava le ostilità che c’erano tra di noi assistenti, le quali lui percepiva in quel sottile imbarazzo che rimaneva come sospeso nell’aria, anche quando si cercava di camuffarlo con atteggiamenti disinvolti. Alla fine del tempo di adorazione, lasciavamo uno spazio libero per le invocazioni e Kababa, ogni volta, pregava per le persone in conflitto chiamandole per nome e domandando al Signore che ritrovassero la pace. In questo modo, a volte imbarazzante, ci aiutava a mettere a nudo le nostre fragilità e portare davanti a Dio i nostri rancori e risentimenti, rendendo quanto mai evidente che tutti i membri della comunità stavano soffrendo per il conflitto che si stava vivendo. Nessuno degli assistenti aveva la prontezza di perdonare e la capacità di guarire le ferite che aveva Kababa. Lui aveva un “ritardo mentale”, ma noi avevamo un “ritardo di cuore”: vivendo insieme potevamo aiutarci e sostenerci nel superare i nostri ritardi. Questo è il dono bellissimo che abbiamo ricevuto vivendo con persone come Kababa: abbiamo scoperto che ognuno ha la sua disabilità e che nell’accettarla possiamo trovare la strada per essere persone felici.

Gabriele Pipinato