Il 31 luglio Franca Valeri compie cent’anni

Buonanotte tristezza

Franca Valeri con Alberto Sordi nel film «Il vedovo»
30 luglio 2020

«Per me la tristezza non esiste — diceva Franca Valeri —. È solo una pausa per riprender fiato tra una battuta e l’altra. Serve a riordinare le idee, come un sorso di whisky per l’alcolista o la rosa dal gambo lungo per una signora ancien régime».

Come tutte le cose veramente grandi, Franca Valeri inizia a mancarci mentre ancora c’è. A lei dobbiamo la capacità di dire la verità più scomoda nel modo in cui fa meno male, parlando d’altro, col sorriso quasi.

Oltre a questo, dal 31 luglio le dovremo cento anni di compagnia, al nostro fianco, per dirci che la vita è un po’ terribile e che in fondo, questo, non è grave. Lo si capisce perché a raccontarlo fa ridere. Perché siamo più forti, non si sa nemmeno di cosa, ma lo siamo.

Norsa è il suo vero cognome, presto tramutato in Valeri in omaggio del poeta Valery come lei stessa ricorda «Cosa significa la parola triste non l'ha scoperto nemmeno Valery, il mio poeta preferito quando, tanti anni fa, mi impadronii del suo cognome per nascondere Norsa, il mio cognome che, agli inizi, mi regalò il flop più tragico della mia carriera, Caterina di Dio, una tragedia scritta dal ventenne Giovanni Testori che, bontà sua, ahimé col mio pieno consenso mi scambiò per un’attrice drammatica».

Come spesso accadeva Testori aveva visto giusto, aveva individuato talento e drammaticità, i due elementi chiave per diventare grandi comici. Come è toccato a Franca.

Di madre cattolica e padre ebreo, Franca inizia proprio dal teatro il suo viaggio, esordisce nel 1947 con il personaggio di Lea Lebowitz, una ebrea innamorata del rabbino, più tardi entrerà a far parte della compagnia del Teatro dei Gobbi (al fianco di Vittorio Caprioli che diverrà suo marito e del grande Luciano Salce). Con la sua compagnia sviluppa un teatro di satira sulla società contemporanea, quello stesso guardo divertito e pungente che diverrà il suo marchio di fabbrica.

Dalla “signorina snob” alla “sora Cecioni” la Valeri cambia solo l’angolo di visuale, il punto di osservazione della realtà ma ciò che vede e scarnifica sono sempre i nostri tic, i piccoli difetti che diventano misura di una società. Capisce che esistono certi piccoli spigoli del vivere che rischiano di risultare invisibili ma che, una volta osservati, ci fanno ridere. E poi riflettere.

La sua carriera è stato un continuo darci appuntamento, in luoghi diversi, nei quali sentirsi sempre, puntualmente, a casa.

Dalle incursioni televisive coi suoi personaggi (nel sabato sera degli anni Sessanta, spesso diretta da Antonello Falqui) a quelle nel cinema che l’ha scoperta come si scoprono i grandi, diversa. Da tutto. È Fellini, in Luci del varietà, che la porta sul grande schermo e le affida il ruolo di una bizzarra coreografa ungherese dal tratto surreale e vagamente misterioso.

Far sorridere senza disumanità, scorticare i nostri vizi senza giudicarci, è uno dei suoi doni. L’impressione è che ogni ruolo le si consegni Franca ce lo restituisca più onesto, perbene. Le parti non sembrano assegnate a lei ma appartenerle in natura prima che sul copione.

Il cinema le spetta prima ancora di conoscerla. Come dimenticare una donna milanese di nome Cesira Colombo, dattilografa, che a Roma aspetta l’amore?

È Il segno di Venere dove, nelle mani di Dino Risi, Franca sprigiona tutta la forza della fragilità. Una cartomante predice a Cesira che Venere sia in transito nel suo segno, il tanto atteso amore della vita, è dunque in arrivo. E Cesira fa quello che fanno le ragazze semplici, di cui ci piace ridere credendo di non somigliare loro: crede nelle stelle.

A quel punto, ogni uomo che incrocia potrebbe essere quello giusto, e lei lo vive così. Come quel poeta scalcinato, meravigliosamente cialtrone (Alessio, interpretato da Vittorio De Sica) che si prende gioco di lei.

Cesira lo sa. La Valeri, i suoi personaggi, sanno sempre tutto, conoscono il finale di ogni avventura, ma nel loro cuore, il gusto del viaggio vale la mediocrità della meta.

Un capitolo a parte meriterebbe il percorso cinematografico al fianco di Alberto Sordi, il cui passaggio più memorabile resta quella Elvira Ammiragli coprotagonista con Sordi stesso de Il Vedovo.

In quel film lei, imprenditrice milanese cinica e di successo, vive col marito romano (Sordi) caricaturale prototipo del cialtrone italiano, incapace, opportunista e senza alcun principio.

Durante le riprese, lei inventa l’appellativo di “cretinetti” con il quale il suo personaggio si rivolge al marito. «Cosa fai cretinetti, parli da solo?» gli chiede irrompendo di sorpresa a quella che avrebbe dovuto essere la sua stessa veglia funebre, gettando il mancato vedovo (e dunque mancato ereditiero) nello sconforto più assoluto.

E poi il teatro, primo amore di Franca, al quale negli ultimi vent’anni, ha nuovamente donato se stessa. Quel palcoscenico solcato come un mare che puntualmente, ogni sera, la fa rincasare nell’affetto del suo pubblico. Di chi la ama e non smette di farlo, proprio come piace a lei, con discrezione e senza troppe parole.

Qualche giorno dopo la morte di Alberto Sordi, fra i tanti necrologi coi quali amici e colleghi lo ricordavano, talvolta con un pizzico di retorica, Franca volle salutarlo a modo suo, dalle pagine del «Corriere». “Ciao Cretinetti” Franca Valeri, Milano.

di Cristiano Governa