Il senso della natura nelle «Contemplazioni» di Silvia Venuti

Ascoltando il Creato

Giotto, «Storie di san Francesco. La predica agli uccelli» (1292-1296)
28 luglio 2020

Uno sguardo umile sulla bellezza


La natura è la protagonista indiscussa di Contemplazioni (Bergamo, Moretti &Vitali, 2020, pagine 120, euro 20), silloge poetica di Silvia Venuti, poetessa e pittrice lombarda: una natura docile, silente, sapiente, in attesa di rivelare allo sguardo umano significati ultimi, verità fondamentali. La porta di accesso alla relazione con l’altro da sé è la meraviglia, scintilla che permette l’avvio di un itinerario spirituale in versi. In questa intervista Silvia Venuti riflette sull’inestricabile rapporto che la sua poesia intesse con un senso cosmico di partecipazione al tutto.

Di quale tipo di equilibrio e saggezza è portatrice la natura contemplata?

La mia poesia si muove in una dimensione di ascolto nel silenzio e si accompagna contemporaneamente a uno sguardo che interiorizza una visione esterna, psichica e spirituale. Prende vita il simbolo, la trasposizione metafisica. La percezione dell’unità tra il presente contingente e l’eterno fa sì che l’anima colga come assoluto il qui e ora in consapevolezza del flusso cosmico e del suo incessante creare. Quindi l’equilibrio deriva dall’unità e la saggezza dalla consapevolezza.

Questi versi indicano come anche l’oscurità possa trasformarsi in armonia, in canto: può lo smarrimento esistenziale dell’essere umano essere lenito dalla contemplazione dell’intrinseca armonia della natura?

Il silenzio notturno è lo spazio simbolico dello smarrimento ma al contempo in esso si coglie la radice di una verità che supera i limiti della ragione che vuole sempre interpretare e giudicare. Questa verità si presenta collegata all’esistenza cosmica, in una dimensione in cui siamo totalmente immersi assieme a tutte le nature create: in questa vastità possiamo cogliere l’origine comune che ci unisce: un vero salto oltre la mente. Immanuel Kant scriveva nella Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e accuratamente la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me». Siamo, diventiamo creature alate nel cielo della vita, nell’unità corpo-spirito, liberi da sovrastrutture intellettuali e schemi culturali.

Quando il pensiero e la parola devono cedere il passo alla semplicità e all’immediatezza della vita?

L’esperienza esistenziale, in rapporto costante con la natura, definisce un ricollocamento dei valori interiori che trasmettono certezze. Avviene così una forma di resa della ricerca intellettuale a favore di uno stato semplice di “essere” nella vita. L’ego viene riassorbito nel sé.

In che modo l’essere umano “si ritrova”, si ricentra al cospetto della natura?

Attraverso l’abbandono dell’eccesso del mentale si può instaurare uno stato di libertà spirituale che può permettere di ricollegarsi alla natura come terra d’origine, come vera Madre. In questo intimo, segreto colloquio si ritrova la propria radice esistenziale e la felicità originaria: si respira in armonia con l’universo.

Quale caratteristica, che l’essere umano non ha, appartiene invece gli animali e le piante?

Ubbidiscono a leggi che non possono trasgredire attraverso un’intelligenza progettuale: si inseriscono docilmente entro un disegno cosmico superiore e partecipano della armonia Universale.

Quale azione esercita sull’uomo la bellezza della natura?

La bellezza della natura eleva la coscienza a un livello superiore di valori. È la via per entrare in colloquio con il divino che abita in ciascuno. Ogni calcolo razionale si annulla di fronte allo stupore intenso che scuote l’anima trasportandola in una dimensione ove spazio e tempo perdono le caratteristiche note e non sono più misurabili. Attraverso la bellezza si raggiungono certezze intuitive, visite dello Spirito. La bellezza aiuta a scoprire i legami d’armonia interni alla Creazione, svela l’interrelazione tra le creature in funzionale dialogo tra loro. La bellezza scioglie i nodi dolorosi che bloccano la libertà del cuore e dona un sentire superiore di pace e di amore. John Keats così scriveva: «La bellezza è verità, verità bellezza, — questo è tutto / ciò che sapete sulla Terra, ed è tutto ciò che vi occorre sapere». (Ode on a Grecian Urn).

In che modo l’essere umano può aprirsi alla natura, in che modo cioè può riuscire ad ascoltarla, a riscoprirsi anch’egli creatura?

Innanzitutto facendo un atto di umiltà: deve evitare di porsi come dominatore vantando una pretestuosa superiorità. Ho ammirato dipinti indigeni in cui l’uomo appariva raffigurato in misura dell’erba, degli arbusti, delle montagne, dei fiori e degli animali. Tutti gli elementi naturali presentavano il medesimo valore. San Francesco continua a insegnare: nel suo Cantico delle creature esalta con amore come fratelli e sorelle tutte le nature create. La interdipendenza che scopriamo porta a innalzare un canto di ringraziamento e gratitudine al Signore con il cuore colmo di gioia.

«Il fascino di un giardino / vive del non sapere / ove portino i sentieri / così è per l’esistenza / se non si temessero gli eventi»: i versi di questa poesia sottolineano un affidamento radicale del creato. Perché l’essere umano non sembra esserne capace? Eppure «nella nicchia del cuore» potrebbe riposare uno spazio di pace…

Non è semplice distaccarsi dai conflitti in una realtà che urge con pressanti esigenze a ogni istante. Eppure la pace si raggiunge solo facendo spazio, silenzio in questo turbinio di pensieri, emozioni e sentimenti. E la natura si fa compagna in questo riconquistato ascolto profondo di sé. Nella natura scopriamo che siamo noi stessi natura e possiamo tranquillamente affidarci a una segreta guida interiore, al nostro Maestro interiore che è voce dell’Infinito, un Infinito che diventa “proprio”.

«L’ombra delle foglie svela / una verità infinita / io e tutte le creature impariamo / l’autunno per la prima volta / in questo assoluto»: quale verità può imparare l’uomo dalla natura? L’attuale atteggiamento predatorio dell’essere umano nei confronti della natura può derivare da questo mancato ascolto?

La natura ci insegna attraverso metafore: è davvero un grande libro; ma ci insegna anche attraverso le leggi dell’equilibrio, attraverso i meccanismi di compensazione e di autoguarigione. Ci insegna attraverso la bellezza dei cicli stagionali e cosmici, dei fenomeni di mimetizzazione, di riproduzione, di conservazione e così via… L’uomo si è allontanato dalla natura perseguendo logiche di potere e d’interesse economico: così condanna se stesso alla infelicità ponendo a rischio la propria sopravvivenza. San Tommaso affermava: «La Bellezza è lo splendore della Verità».

«Contemplare / la trasparenza / di una foglia / o la luce della pioggia / che cade / è ritrovare il coraggio / di vivere / e ancora d’amare»: la vera contemplazione può condurre a riscoprire una profonda gratitudine verso il vivere stesso?

La natura è una continua scoperta perché non si ripropone mai con modalità uguali: è continua fonte di meraviglia e di stupore. L’incontro perennemente rinnovato con la sua bellezza dà motivazione a vivere, fa acquisire consapevolezza di quanto di miracoloso avviene attraverso la complessità dei regolamenti interni che interagiscono nella conservazione del creato. Non si può quindi non essere “toccati” dal sacro che nella natura, noi compresi, si manifesta. La contemplazione è così già ringraziamento: nel nostro sguardo si specchia la bellezza e conoscenza del divino. Kahlil Gibran scriveva: «Bellezza è eternità che si contempla in uno specchio. Ma voi siete l’eternità e siete lo specchio».

Il creato vive nell’attesa: nel mondo naturale quest’attesa è colma di speranza, in quello umano di sgomento. Si potrebbe obiettare che agli esseri umani appartenga una consapevolezza maggiore rispetto alle altre creature: è d’accordo con questa affermazione?

In ogni pausa del nostro fare compiamo il rito dell’attesa con un cuore aperto alla speranza. Penso che la speranza sia intrinseca all’istinto di conservazione e nel medesimo tempo sia una spinta evolutiva per migliorare il mondo. Certo si vive anche lo sgomento per l’ignoto con la coscienza dei pericoli e della morte come destino ultimo. Quanta consapevolezza di tutto questo abbiano le altre creature non possiamo davvero saperlo.

«Una pace sacra, sconfinata / accompagna la resa del pensiero, l’abbandono della volontà, ogni qualvolta l’anima contempla / la disarmante innocenza della Natura / nel suo inno alla libertà»: come si concilia l’innocenza della natura cantata in questi versi, con violenza all’interno di questa?

Considero, come innocenza della natura, la sua armonia guidata da leggi funzionali all’Universo. All’interno di queste leggi ci sono i ruoli dei predatori e delle prede, dei cicli vitali che si perpetuano con più o meno violenza e quindi dolore e sofferenza. Eppure anche gioia e felicità trovano spazio in complementarità. Tutta la creazione si muove tra opposti con ragioni che conservano quel mistero che alla mente umana non è dato conoscere.

Qual è la «Terra d’origine» a cui l’odore del prato richiama la mente dell’uomo abbandonato «nel vizio del vivere»?

La Terra d’origine costituisce il Sé e ne avvertiamo la presenza quando il nostro sé individuale abbandona la costrizione del proprio ego cioè la paura che contempla anche un corollario di altre tensioni: il desiderio di potere e di ricchezza, l’invidia, l’ira e così via. L’odore del prato, cioè i sensi aperti nella natura aprono anche il cuore e la mente a una dimensione spirituale che ricollega alla nostra origine universale e divina. Essa si raggiunge attraverso uno “stato d’essere”, attraverso cioè un’esperienza vera e personale d’ascolto interiore: non può essere conosciuta per mezzo di parole o letture.

di Elena Buia Rutt