LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
I virus, parametri biologici della vita stessa

Viventi o non viventi,
questo è il dilemma

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04 giugno 2020

Dalla varicella al morbillo, dal vaiolo alla rosalia, dagli orecchioni al raffreddore, sono innumerevoli le epidemie virali che hanno flagellato l’umanità nei secoli (come lo attesta una stele di 30 secoli fa, raffigurante un sacerdote egizio afflitto da poliomielite), non risparmiando l’epoca moderna (si pensi a tre forme particolarmente dannose di influenza del ventesimo secolo: quella dovuta al virus H1N1 che causò la spagnola mietendo 50 milioni di vittime fra il 1918-1920, quella dovuta al H2N2 che causò l’asiatica negli anni Cinquanta spezzando un milione di vite fra il 1957-1958 e quella dovuta al H3N2 che causò la sua variante Hong-Kong portandone via un altro milione fra il 1968-1969). Questa competitività epidemiologica è ancora più intrigante se si considera che i virus sono esseri puramente parassitari. Il parassitismo è una forma di interazione fra due specie nella quale una delle due si avvantaggia dell’altra ed è quindi distinta sia dal mutualismo — nel quale, entrambi le specie traggono beneficio dalla convivenza — sia dalla predazione — che non prevede forme di simbiosi—. Il parassitismo virale, inoltre, è di tipo assoluto: il virus dimostra scarse proprietà vitali in assenza di un ospite e, quando quest’ultimo muore, se il virus non ne trova un altro, è lui stesso, presto o tardi, condannato a perire.

Questa caratteristica dei virus è una delle ragioni per cui la loro identificazione fu laboriosa. Nonostante i lavori pioneristici sui vaccini di Edward Jenner e di Louis Pasteur e quelli su un parassito della pianta del tabacco di Dmitri Ivanovsky e Martinus Beijerinck (che, per primo, nominò tale agente patogeno con il titolo generico di “virus”, ossia “veleno”) molti, compreso il Premio Nobel 1946 Wendell Stanley che riuscì a cristallizzare il tobacco mosaic virus, consideravano i virus dei semplici «ammassi biochimici complessi». E, nonostante lo sviluppo della biologia molecolare che ne svelò la struttura essenziale, poiché riducibile a un nucleo-capside (ossia: una piccola quantità di materiale genetico, i nucleotidi, rivestita da una manciata di proteine, il capside), non esiste ancora un consenso scientifico sul considerare i virus esseri viventi veri e propri. Forse il problema di fondo è che non esiste neppure, almeno scientificamente parlando, un consenso su cosa sia la vita stessa. Vi è, per lo più un accordo, su una serie di proprietà che gli esseri viventi dovrebbero manifestare per definirsi tali, fra cui: 1. il metabolismo, ossia: la produzione o l’uso di energia per costruire delle strutture chimiche (anabolismo) o per decomporle (catabolismo); 2. l’omeostasi, ossia: la capacità di regolare l’ambiente interno da quello esterno al fine di mantenere uno stato di funzionalità; 3. l’organizzazione, ossia: l’essere composti da varie parti integrate (gli organi, nel caso di esseri complessi) deputate ad attività specifiche; 4. la crescita, ossia: l’espandersi armoniosamente e coordinatamente di un essere nelle varie parti che lo compongono; 5. l’adattamento e / o la risposta agli stimoli esterni, ossia: la possibilità di accomodarsi ai cambiamenti dell’ambiente esterno per garantire la sopravvivenza; 6. la riproduzione, ossia: la capacità di dare nascita a nuovi individui geneticamente correlati con quello da cui originano.

Che siano fuori o dentro d’un ospite, i virus non manifestano né metabolismo, né omeostasi, né, in senso stretto, crescita, visto che risultano da un processo di puro assemblaggio. Per quanto riguarda l’organizzazione, la loro struttura è così basilare da non permette di parlare di elementi funzionali, al meno che le proteine del capside — che permettono al virus di incollarsi sulla membrana delle cellule dell’ospite — possano, con un salto dell’immaginazione, essere considerate un organo. D’altronde è proprio questa semplicità che rende il contrasto farmacologico ai virus così difficile.

I batteri, come le cellule umane, hanno strutture funzionali come le membrane e per questo, quelli che ne hanno del tipo “gram-positivo” — dal test disegnato da Hans Christian Gram — muoiono sotto l’azione degli antibiotici. Mentre non esistono dei veri trattamenti contro i virus contro i quali, al meno di risultare immunizzati (sia perché già esposti ai loro attacchi, sia per vaccinazione, sia per aver ricevuto per trasfusione di anticorpi specifici), si può solo: o rallentare la velocità di replicazione del materiale genetico — con i farmaci retro virali, che però sono efficaci solo presso alcuni classi di virus fra le tante definite dal Premio Nobel David Baltimore — o rendere più laborioso il loro attracco sulle cellule dell’ospite, forse, in futuro, con tecniche di ingegneria genetica di tipo molto avanzato.

Inoltre, un altrettanto azzardata interpretazione espansiva sarebbe necessaria per considerare le rapide mutazioni ereditarie o il proficuo scambio di materiale genetico durante le co-infezioni virali come forme di adattamento o di risposta agli stimoli. Ed è proprio questa propensione alla mutazione genetica che garantisce ai virus di evolversi e di riprodursi (benché in maniera dipendente dall’ospite, giacché un virus non può replicarsi da solo); ed è quindi, sicuramente la riproduzione ad essere l’unica caratteristica vitale certa attribuibile ai virus.

Per comprendere meglio da dove derivi questa loro capacità di replicazione è utile esplorare le tre teorie più classiche che sono state avanzate per spiegare come i virus siano apparsi sulla Terra, conosciute come la: virus-first, la reduction (degenerancy) e la escape (vagrancy) hypoteheses.

La prima postula che i virus nacquero prima di quasi tutte le forme di vita sulla terra; la seconda, che i virus furono degli organismi monocellulari che si ridussero allo stato parassitario; la terza, che essi emanarono da forme di vita ancora più complesse. Visto che i virus non lasciano fossili, ci vorrà del tempo prima che i paleo-virologi valutino queste teorie (ne sono prova le recenti varianti come la bubble theory o la chimeric theory, che tentano, a partire dei dati della biologia molecolare, di integrare il meglio di ognuna delle predette ipotesi); quella che è in gioco, però, è la concezione di come iniziò la vita sulla Terra, e se essa non abbia la sua origine ultima da strutture chimiche — quali le proteine e gli acidi nucleici — che trovarono le condizioni idonee per replicarsi ed evolversi in strutture sempre più complesse.

Se così fosse, bisognerebbe allora estendere il concetto di vita a molecole ancora più semplici dei virus come i “prioni” — delle proteine devianti, che riescono a moltiplicarsi essendo assunte in altri esseri viventi — che riproducendosi anch’esse in organismi viventi possono essere causa di patologie del tipo della “sindrome della mucca pazza” (encefalopatia spongiforme bovina). Forse però, come lo intuiva il Premio Nobel Salvatore Lauria, il problema sarà risolto indirettamente dall’osservazione di come il patrimonio genetico dei virus sembra emergere e riemerga in modelli (patterns) ricorrenti. Paradossalmente, allora, la specie umana potrà contribuire direttamene a svelare i segreti di questa modellizzazione.

Ai suoi albori, infatti, gli ominidi non incarnavano una specie particolarmente favorevole all’espansione virale. Ma l’uscita dell’homo sapiens dall’Africa con la successiva conquista delle terre emerse a partire da 70 milioni da anni fa, la domesticazione incominciata 30.000 anni fa che propiziò anche al fenomeno della zoonosi (l’infezione umana per mezzo di specie animali), lo sviluppo dell’agricoltura con una conseguente sedentarietà a partire da 12.000 anni fa, e la nascita delle civilizzazioni con una crescita esponenziale della popolazione umana, hanno tutte fatto sì che i virus prosperassero in mezzo a noi.

A peggiorare questo stato di cose, non si può escludere che le modificazioni estreme che l’uomo sta causando all’ambiente — in particolare, la distruzione degli habitat naturali con la crescente urbanizzazione, la mobilità della popolazione che aumenta le interazioni fra gli esseri umani, e la distruzione della biodiversità con la relativa diminuzioni delle specie selvatiche — rendano l’homo sapiens un ospite sempre più ideale per studiare i virus, visto la possibile crescita delle infezioni virali che lo affliggeranno in futuro. Se così fosse, la specie la più evoluta, diventando la miglior preda di quella più elementare e pagandone un pesante tributo, diventerà il miglior oggetto di studio su cosa significhi, biologicamente parlando, essere viventi.

di Carlo Maria Polvani