L’urbe di Gregorio Magno

Un Papa, una città

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22 giugno 2020

I Papi nati a Roma sono quasi un centinaio, distribuiti specialmente nel primo millennio. Il più recente di loro è invece abbastanza vicino, Pio XII, morto a Castel Gandolfo nel 1958. Una grande figura, è sicuro, come lo sono altre fra i tanti Pontefici “doppiamente” romani. Ma il più grande di tutti è un romano-cristiano doc come nessun altro, ed è difficile dubitarne. Perché stiamo parlando di Gregorio i (540-604), il secondo Pontefice onorato con il titolo di Magno dopo Leone i morto nel 440, e prima di Giovanni Paolo II, il terzo Magno della storia della Chiesa, di cui ricorrono quest’anno i 100 dalla nascita. La memoria di Papa Gregorio è stata ricordata da non molto, nel 2004, solo che la sua morte non datava da 100 anni ma da 1400. E tutto sommato è stata una buona occasione, come spesso (ma non sempre) succede in questi casi, per celebrare e anche per rileggere criticamente i termini della grandezza di Gregorio I, Pontefice § romano.

I quali sono tali e tanti che, pure a sintetizzarli, si diventa prolissi. In un corpo minuto e lavorato dall’ascesi (si veda il capolavoro pittorico rinascimentale di José de Ribera, dove Gregorio è ritratto da anziano monaco qual era, ma vestito del rosso dei Pontefici), questo figlio della crema di Roma, nato nella gens Anicia e plasmato dalla migliore educazione classica, che però non era più quella d’autrefois, in equilibrio sul ripido crinale fra tarda antichità e alto medioevo, concentrò nelle mani sottili e in uno spirito gigantesco una energia-lucidità-determinazione che ancora stupisce. Avviato al cursus honorum fu Praefectus Urbi ma si fermò lì, e la storia ringrazia. Infatti fu folgorato da san Benedetto, si convertì al cenobitismo e il suo primo vero merito storico è di aver introdotto la cultura benedettina a Roma, e da Papa in tutta Europa. Intanto, prima del Pontificato, era stato diplomatico a Costantinopoli, imparando la difficile arte di giocare su più tavoli, uno più rischioso dell’altro: dai Bizantini al capriccioso imperatore Maurizio, dai Goti ai Vandali, dai Longobardi all’anarchica nobiltà romana. Gettò le basi dell’idea d’Europa, scelse risolutamente l’Occidente (si veda l’evangelizzazione della Britannia), convertì i cosiddetti barbari e fuse Gothia e Romania inventando il Medioevo. E fra tanti impegni trovò il tempo di creare il canto gregoriano e di scrivere capolavori come i Moralia in Job e la Regola Pastoralis che per consenso unanime lo hanno promosso fra i big della patristica latina, accanto a Girolamo, Ambrogio e Agostino.

Ma qui ci fermeremo su un aspetto di Gregorio che in certo senso li rappresenta tutti, iconicamente, ossia la sua profonda, totale identificazione con Roma. L’Urbe della classicità e del cristianesimo, dei Cesari e dei Papi, del Consul Dei, come fu chiamato il grande Pontefice, e del Servus servorum Dei, come lui chiamò se stesso. Un’identificazione così forte che ricostruire il percorso umano, spirituale, politico, ecclesiale di Gregorio nella Roma contemporanea equivale a compiere, mutuando dal lessico turistico (absit iniuria verbo), un itinerario tematico di estremo interesse.

Allora partiamo, iniziando da dove iniziano tutti, la nascita. Il luogo dove Gregorio vide la luce è indicato da una veneranda tradizione nel sito della chiesetta settecentesca di San Gregorio della Divina Pietà, o San Gregorietto ai Quattro Capi, dov’erano le domus degli Anici. Un parallelepipedo rococò di pietra giallo ocra, isolato come un armadietto tra Monte Savello e il Lungotevere de’ Cenci. Nessuno lo “fila”, dicono a Roma, tanto meno la gente svuotata a getto continuo dai bus alla fermata di fronte; eppure è carico di storia, sia per la memoria gregoriana, sia come antica sede di una Confraternita dedita all’assistenza delle “povere onorate famiglie e vergognose”, i nobili decaduti, come si legge sulla fessura per l’obolo ancora lì. Non è tutto. Sopra l’ingresso c’è una surreale citazione ebraico-latina di Isaia diretta contro gli ebrei, che lì erano obbligati ogni tanto ad ascoltare le omelie ai fedeli. È trapassato remoto per fortuna, e da ben prima che il terzo Magno, Papa Woytjła, visitasse la Sinagoga di Roma e salutasse negli ebrei i “fratelli prediletti e maggiori”.

Puntiamo a est e raggiungiamo… ciò che non c’è più! Stiamo parlando della Velia, il basso colle tra Palatino, Fagutal e Oppio, azzerato negli anni ’20 per allargare via dei Fori Imperiali. Lì secondo certe epigrafi si doveva trovare la Praefectura Urbi, ufficio retto da Gregorio fin verso il 575, quand’era 35enne. Carica elevatissima, qualcosa di intermedio tra prefetto, sindaco e questore, coprendo la quale Giunio Rustico nel 165 aveva processato e condannato al martirio il filosofo Giustino. Forse, quando lo scoprì, anche per questo il futuro Papa si dimise da Praefectus. Ma soprattutto perché si convertì alla vita benedettina, e fondò una meraviglia di Roma: ai piedi del Celio, dal lato della via Appia, se chiudiamo gli occhi possiamo immaginare, sul pendio, la sontuosa villa “fuori porta” degli Anici. Il neomonaco Gregorio la spoglia, dà tutto ai poveri e vi fonda l’abbazia benedettina di Sant’Andrea, di cui sarà abate. Oggi vi sorge la splendida chiesa di San Gregorio al Celio, e nel monastero adiacente i figli di Benedetto sono stati “rimpiazzati” dalle sorelle di Madre Teresa, che come il Papa-cenobita pregano e aiutano i poveri. Sul lato opposto, lungo il Clivus Scauri che sale alla Navicella, ci sono i tre famosi Oratori di Sant’Andrea, Santa Silvia e Santa Barbara. Edifici unici, risalenti a Gregorio e alla madre Silvia, che testimoniano la loro vita di orazione e carità.

Da Papa, abitò al Laterano. Infatti se nella Basilica Lateranense officiavano e predicavano al popolo, per il resto i Papi dal iv al XIV secolo vissero nel Patriarchio, ch’era dov’è ora la Scala Santa, ma ben più grande. Il misterioso “nicchione” con il mosaico restaurato dal Fuga che affaccia sulla piazza altro non è che l’abside dell’immenso salone del primo palazzo papale. Nel Sancta Sanctorum della Scala Santa, la “cappella Sistina” di allora, c’è una miracolosa icona di Cristo risalente a Gregorio e detta Acheropita, non dipinta da mano d’uomo. Probabilmente il Papa la portò in processione a San Pietro durante la pestilenza del 590, quando la tradizione vuole che sia stato visto l’arcangelo Michele mentre rinfoderava la spada sulla Mole Adriana, segno che l’epidemia era finita.

A Castel Sant’Angelo siamo quindi in un altro sito di Roma gregoriana. Per l’ultima tappa sarà sufficiente la soglia di San Pietro, raggiungere la navata sinistra più esterna ed entrare nella Cappella Clementina. Qui, sopra l’altare destro, è dipinto Gregorio Magno che incide con uno stilo un lino bianco miracolosamente insanguinato per aver toccato dei martiri. Custodite sotto l’altare, riposano le sue spoglie in attesa della Risurrezione.

di Mario Spinelli