Conflitto e poesia in due serie televisive israeliane

Senza pace perdono tutti

Un fotogramma dalla serie «Shtisel»
13 giugno 2020

Una soggettività culturale che pure ha svolto un ruolo preminente nel corso dei secoli trova oggi nuove declinazioni al passo coi tempi. Ci riferiamo alla produzione culturale recente dalla terra d’Israele che non cessa d’imporsi in tutto il mondo in termini d’eccellenza. Se non bastasse l’unicità della sorgente letteraria, che ci ha regalato i capolavori per dire di un Amos Oz o di un Abraham Yehousha, o le belle sorprese dal nuovo cinema israeliano che riceve apprezzamenti di critica sempre più diffusi, ora è anche nel nuovo format delle serie tv che Israele si impone all’attenzione degli spettatori di mezzo mondo.

Nelle settanta serate di quarantena a cui siamo stati costretti dal coronavirus in molti si sono sintonizzati sulle due serie forse più apprezzate di questa stagione: Fauda e Shtisel. Due prodotti molto diversi tra loro quanto a contenuti e fattura, ma uniti dalla ricerca dell’eccellenza stilistica e di contenuto.

Fauda (che in arabo significa caos, sommossa) racconta le imprese di un gruppo di soldati israeliani delle unità speciali chiamate Mista’arvim, cioè squadre antiterrorismo composte da militari che parlano perfettamente l’arabo palestinese, vivono, si vestono, e pregano esattamente come i giovani palestinesi. Infiltrati e mimetizzati nei territori occupati della Cisgiordania o a Gaza, il loro scopo è scovare e catturare gli uomini di Hamas o della Jijhad. Spesso con la collaborazione dei servizi di sicurezza palestinesi. Al netto di alcune scene d’azione esageratamente violente o “bondiste” (da James Bond), il plot si presenta abbastanza realistico. D’altronde uno dei due autori sceneggiatori, Lior Raz, che ne è anche il protagonista principale, è stato membro delle forze speciali israeliane. Nella prima serie i Mista’arvim sono chiamati a sventare un grande attacco che Hamas vuole portare a Gerusalemme dai territori occupati. Nella seconda l’obiettivo è sradicare l’infiltrazione di una prima cellula dell’Isis sempre nei territori. Nella terza, più realisticamente vicina ai giorni nostri, il set si sposta a Gaza.

Pur essendo una produzione israeliana, incredibilmente le stagioni di Fauda hanno registrato un audience altissimo e anche un buon livello di gradimento in molti paesi arabi e anche in parte della stessa popolazione palestinese.

Non per una pretesa neutralità del racconto, che comunque è visto con occhi israeliani. Le ragioni di questo paradossale consenso vanno piuttosto ricercate in due altri e diversi aspetti della fiction. Innanzitutto la fedeltà dei caratteri psicologici tipici dei personaggi degli opposti schieramenti. La forte carica identitaria che motiva i soldati israeliani fino al limite dell’interpretazione fredda, chirurgica e cinica delle loro azioni. «Ci insegnano a non pensare. Perché se pensassimo a quello che facciamo impazziremmo». E dall’altro quello strano mix di fanatismo e incoerenza del fronte arabo. Per cui i servizi di sicurezza palestinesi non esitano a consegnare agli israeliani gli uomini di Hamas, e anche questi collaborano col nemico quando vedono minacciata da una cellula dell’Isis la loro egemonia nei Territori.

Ma soprattutto il consenso che Fauda riscontra da entrambe le parti è dato dalla sua cruda rappresentazione di come la guerra mortifichi e bestializzi chi la combatte. Una guerra di cui ormai non si ricorda l’inizio e di cui nessuno riesce a immaginare una fine. In Palestina si è smesso di immaginare la pace, perché nessuna delle parti ha mai vissuto in pace. Alla fine di ciascuna delle tre stagioni nessuno può dire di aver vinto la partita. In Fauda nessuno canta mai vittoria, in conclusione perdono sempre tutti. Lo stesso protagonista principale, il soldato Doron Kabilio, passa di sconfitta in sconfitta, e l’unico successo che può vantare è di essere ancora vivo. E non si tratta solo di sconfitte militari, perché lo zoom incede anche sulle sconfitte personali: umani disperati che non sanno più amare, non sanno più vivere. Quelli che vorranno perciò vedere lo sceneggiato con spirito partigiano rimarranno delusi. Ma poiché in tanti invece non rimangono delusi da questo show vogliamo credere sia il buon segno che ormai tanti cominciano a rifiutare la disumanizzazione del loro essere e ad essere stufi di vivere in un conflitto permanente e senza fine.

Tutt’altra musica per l’altro grande successo televisivo israeliano Shtisel. Quanto Fauda presenta le note di una violenza ottusa e ripetitiva, tanto Shtisel è improntata ai toni della delicatezza e della sensibilità. La storia di una famiglia di ebrei ortodossi Haridim di Gerusalemme. In molti passaggi poesia pura. Ed è forse la prima volta al mondo che un format così moderno e commerciale come le serie televisive riesce a incontrare la poesia. Così come è forse la prima volta che una serie televisiva riesca a tenere incollati allo schermo milioni di spettatori in attesa della successiva puntata senza che vi sia un filo narrativo a motivarlo. Non c’è un plot, ma solo la narrazione profonda ed intima dei personaggi che compongono la famiglia Shtisel. Dal padre Shulem, goffo e pasticcione nel tentativo di mantenere la direzione della famiglia nel verso della tradizione, al figlio Akiva, aspirante pittore alla perenne ricerca di una fidanzata, che ha ereditato dal padre la goffaggine ma non anche il carisma, alla problematica e introversa figlia Giti, e alla non meno problematica nipote Rachumi interpretata dalla bravissima Shira Hass, reduce dal successo come protagonista della miniserie Unhortodox. Il tutto si gioca sulle complesse relazioni psicologiche tra i vari componenti di questa famiglia allargata, descritte con quelle sfumature delicate che rimandano alla migliore letteratura mitteleuropea e orientale. Ma il merito maggiore di Shtisel è senz’altro di aver alzato un velo sull’esistenza degli Haridim. Un mondo ormai grande (più di 800mila in Israele, il 13 per cento della popolazione), in costante crescita (ogni donna fertile partorisce in media dai 5 ai 7 figli), controverso (per il carico che portano al welfare israeliano, l’esenzione dal servizio militare, e la diffusa ostilità che nutrono nei confronti del sionismo), isolato (vivono insieme nei medesimi insediamenti, principalmente a Bnei Brak e a Gerusalemme nei quartieri di Mea Shearim e Geula), senza alcun desiderio di entrare in contatto con le altre componenti della società israeliana. Mi raccontava recentemente un francescano italiano che vive da 40 anni a Gerusalemme: «Ne vedo passare ogni giorno centinaia sotto le mie finestre mentre si recano al Kotel (il muro occidentale del Tempio erodiano), ma in 40 anni non sono mai riuscito a scambiare una sola parola con uno di loro». E non è un atteggiamento di chiusura riservato ai Goyim: la maggior parte degli stessi ebrei israeliani non ortodossi non ha mai rivolto la parola agli Haridim, che rimangono ai loro occhi un mondo a parte e misterioso. Gli stessi attori di Shtisel hanno confessato di aver dovuto studiare a lungo gli usi e costumi degli ortodossi, che a loro erano del tutto sconosciuti.

Cosa ci racconta Shtisel di questo mondo? Intanto che gli ortodossi pregano molto, sempre. Non c’è frammento della giornata, che sia bere un bicchiere d’acqua o passare da una stanza all’altra della casa che non sia segnato dalla preghiera. Poi che la Tradizione, al netto delle ossessioni ritualistiche e delle discriminazioni che a volte contempla, aiuta a vivere bene e in armonia. In tutti i dialoghi della serie non compare mai una parola di acredine o di ira, e anche le contese intrafamiliari sono sempre rappresentate con compostezza, toni bassi e dignità; e alla fine si ricompongono sempre. E poi le donne. Istituzionalmente relegate a un ruolo marginale e sottomesso. Si rivelano a sorpresa il vero asse portante dell’intera famiglia. Dalla spassosa nonna Malka fino alla giovane e volitiva nipote Rachumi. Gli uomini, unicamente immersi nello studio della Torah portano invece tutti con se un senso di maturità incompiuta, se non di infantilismo. In qualche modo l’intera serie ruota essenzialmente intorno a tre aree tematiche il rapporto, appunto, tra i generi, la ricerca della vocazione esistenziale e l’angustia dell’anzianità. Temi poi non così distanti dal nostro mondo occidentale “moderno”. Forse è proprio per questo che l’universo misterioso degli Haridim si è rivelato con Shtisel così attraente e simpatico ai nostri occhi.

di Roberto Cetera