A 150 anni dalla morte di Charles Dickens

Quando lo sguardo dà una gomitata al cuore

Phoebus Levin «Covent Garden Market» (1864)
08 giugno 2020

Uno scandaglio illuminato e illuminante nel mistero delle cose


Da molte settimane faccio fatica a parlare e a scrivere, mi pare di avere solo quelle sillabe storte e secche di Montale e comunque sento un grande bisogno di silenzio. Non possiamo negare di essere stati profondamente scossi e di patire, anche per chi non è stato direttamente colpito dal virus, un dolore sordo a cui è difficile dare un volto preciso, per piangere come si deve — al modo dei bambini — e poi ripartire. Allora ho letto molto, cercando voci che fossero compagne sincere, in un silenzio vivo e riflessivo. Mi ritrovo a convenire con Elsa Morante sull’evidenza che un autore lo si custodisce tra gli amici più cari quando fa qualcosa di opposto alla bomba atomica: anziché far esplodere il reale in frammenti impazziti, ce lo dona più integro e vivido. «La ragione propria dell’arte, la sua giustificazione, il suo motivo di presenza e sopravvivenza, o, se si preferisce, la sua funzione, è appunto questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o, in una parola, la realtà» (da Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica).

Chi ti salva dall’avere un rapporto logorato col mondo? Chi ti strappa dall’essere un alienato del tuo quotidiano? Se queste fossero le ipotesi su cui costruire un’antologia di amici-padri-madri scrittori, Charles Dickens sarebbe il mio capobanda. E lo so che non è un termine letterario, ma io lo immagino a battere su un tamburo o soffiare in una tromba squillante, e dietro a lui una schiera infinita di uomini e donne e bambini — tutti i suoi personaggi.

Il calendario ci segnala che il 9 giugno ricorrono 150 anni dalla sua morte, il che ci fa subito scomodare uno dei suoi incipit migliori «Marley era morto, tanto per cominciare. Non c'era alcun dubbio» (Canto di Natale). Non c’è alcun dubbio che Charles Dickens sia morto. Ma, proprio in quel racconto, il morto Marley ha il compito di richiamare alla vita un cadavere vivente come Scrooge. Dante sarebbe il primo a ricordarci che i morti possono salvare noi che, pur respirando e camminando e parlando, siamo a un passo da uno spegnimento peggiore del decesso fisico.

Perciò la voce di Dickens è tra quelle che non si possono definire defunte, perché è capace di ridestare in chi lo legge il tripudio scomposto, eccessivo e stupefacente dell’esserci. Non c’è eresia peggiore del dire che ne abbiamo abbastanza degli uomini e del mondo; ma è vero che ci sono ferite così grandi nel male e nel livore da farci sentire quel logoramento di cui parla la Morante. Confesso che il mio rapporto col mondo patisce una fortissima diffidenza da sempre, sono molto timorosa e sono scontenta per natura. La mia anima in perenne retromarcia dalle relazioni e dagli eventi ha subìto un vero lavaggio del cervello tutte le volte che ha abitato tra le pagine di Dickens, e sono ben lontana dal conoscerlo in modo esauriente. Un esercizio rinvigorente che uso come integratore di energie è leggere gli incipit delle sue storie. Un bravo letterato — forse c’è e io lo ignoro — dovrebbe rendere giustizia alla potenza degli esordi di Dickens.

Pensiamoci un attimo: rompere il silenzio per cominciare a dire qualcosa è un atto di estrema fiducia nella Creazione, nelle presenze, negli incontri, nel valore di ciò che c’è.

Facciamo solo un esempio. «Il primo raggio di luce che viene a rompere ed a fugare le tenebre nelle quali pareva involta l’apparizione dell’immortale Pickwick sull’orizzonte del mondo scientifico» (Il circolo Pickwick): ecco un inizio che è davvero un inizio, la separazione delle tenebre dalla luce. Ogni scrittore, consapevole o meno, vive un rapporto intenso con la Creazione di Dio; e se osa chiamare in causa un getto di luce potente — al modo di Caravaggio — bisogna che sia intensamente proteso a conoscere ciò che viene alla luce. Dickens ha sottratto al buio una miriade di figure umane che sono folgoranti anche se restano sulla scena il tempo di una battuta. Ciascuno ha il suo guizzo di luce, nel bene o nel male. E qualcosa di questa luminosità accecante resta nella vista del lettore.

Ammetto, ad esempio, che mi ritrovo a indugiare moltissimo su tante figure che compaiono e poi scompaiono nella vita di tutti i giorni, un gesto inconsueto o una smorfia me le rende interessanti e, quando accade, so a chi dire grazie (talvolta sussurro pure «Tu, Charles, ci avresti fatto un romanzo con quella signora dai capelli arruffati»). Il buio della dimenticanza e del torpore non è stato sconfitto una volta per tutte, e ritorniamo dunque lì: l’arte è tale quando si adopera per accendere in noi uno sguardo integro del reale. Non solo: ci dà anche la spinta a essere parte viva di quell’esperimento formidabile che è l’essere.

Il signor Pickwick mi torna in mente tutte le volte che, ben al di là di questioni sanitarie importanti, mi chiuderei in una quarantena disillusa e borbottona. «La via Goswell si stendeva alla sua destra, la via Goswell si sviluppava verso sinistra per quanto l'occhio portava, e di faccia a lui si apriva appunto e si dilungava la via Goswell. “Tali sono — pensò il signor Pickwick — gli angusti criteri di quei filosofi i quali, tenendosi paghi all’esame delle cose direttamente tangibili, non guardano alle verità che vi si nascondono. Allo stesso modo, io potrei essere soddisfatto di contemplare per sempre questa via, senza fare alcuno sforzo per penetrare nelle misteriose regioni che da ogni lato la circondano”. E così, dato sfogo a questa bella riflessione, il signor Pickwick procedette alla duplice operazione di mettere la propria persona nei vestiti e i suoi vestiti nella valigia». Possiamo sempre chiuderci a guardare questo mondo così paradossale e imprevedibile dalla nostra stanza, oppure possiamo essere parte viva della storia che misteriosamente si dipana da quando le tenebre e la luce sono stati separati.

Non c’è espressione migliore di quella pronunciata da Mr Pickwick: penetrare il mistero. È questa la scelta radicale che compiamo tutte le volte che usciamo di casa. Entriamo a capofitto in un tessuto di relazioni che solo gli sciocchi possono illudersi di classificare in griglie sociali, economiche, psicologiche. Osservando un operaio al lavoro, lo Stephen Blackpool di Tempi difficili, Dickens ci ha lasciato un memorandum commovente: «Conosciamo fino all'ultima unità quello che può fare una macchina, ma neppure tutti i contabili della tesoreria nazionale, messi assieme, riusciranno mai a calcolare quale sia la capacità di agire nel bene o nel male, di amore o di odio, di patriottismo o di scontento, la capacità di corrompere la virtù in vizio o di esaltare il vizio in virtù, che si annida nell’animo di ciascuno di questi schiavi mansueti, con i loro volti composti e i gesti regolarmente scanditi. Nessun mistero nella macchina; un insondabile mistero perfino nel più umile di loro — per sempre».

La narrativa di Dickens è un giardino, una scena rigogliosa di relazioni vive e sorprendenti. I suoi detrattori non stenterebbero a dire che sia una giungla contorta e lussureggiante, eccedente ed eccessiva. Era un uomo dagli occhi voraci di umanità, e non mi sento affatto di fargliene una colpa. Dichiarò a John Forster, suo amico e poi biografo: «Le persone che si credono a gran distanza le une dalle altre, si danno le gomitate tutti i giorni». Sento l’eco di queste parole quando mi trovo in mezzo alla gente in queste settimane e, guardando tutti alle prese con il distanziamento sociale, mi chiedo che ne sarà delle nostre relazioni già compromesse dal veleno di una separazione profonda ben prima del covid-19. Certo non è il contatto che crea la relazione, ma una comunicazione feconda tra gli occhi e l’anima. Non è una mascherina a tenerci lontani, non è l’idolo contemporaneo della connessione ad avvicinarci. La relazione nasce quando lo sguardo dà una gomitata al cuore. C’è un momento in cui il tragico destino di Oliver Twist dipende dalla firma di un giudice, tutto è già stato predisposto per andare in un certo modo e Oliver è zitto e il giudice è distante da lui. Nessuna parola, nessun contatto tra i due; finché lo sguardo muto di un bambino disperato riesce a distogliere un annoiato esecutore della legge dal suo torpore. E le cose cambiano. Grazie, dunque, caro Charles di essere molto vivo, vivace e vegetissimo nel tenere desta quest’ipotesi semplicissima eppure rivoluzionaria: cosa può accadere se guardiamo davvero chi ci è accanto?

di Annalisa Teggi