San Romualdo abate, fondatore dell’ordine dei camaldolesi

Profeta in ascolto dello Spirito

Guercino, «San Romualdo»
18 giugno 2020

Sterilitatis impatiens, “impaziente di sterilità”, di portare frutto e di generare alla fede e alla vita monastica: così il suo agiografo Pier Damiani sintetizza l’inquietudine di san Romualdo di Ravenna, “eremita itinerante” (N. D’Acunto), maestro spirituale, fondatore e riformatore, uomo assetato di Dio, contemplativo recluso, autorevole riferimento di dogi e imperatori. Un percorso cristiano e monastico il suo del tutto figlio del suo tempo, a cavallo dell’anno Mille, ma capace di suggerire direzioni di cammino ancora pienamente attuali.

L’Europa di Romualdo è segnata da trasformazioni profonde, con il primo sviluppo delle città, la crescita demografica, l’espansione del commercio e degli scambi, i progressi tecnologici in agricoltura. Migliorano le vie di comunicazione, in particolare le strade, facilitando gli scambi commerciali, ma anche culturali e religiosi: proprio le strade d’Europa saranno il teatro di una parte importante del cammino di Romualdo e dei suoi discepoli. Qui, oltre ai grandi della terra, incontrano la povertà economica ed esistenziale delle nuove masse urbane, sradicate e trapiantate, e così si delinea la forte tensione evangelizzatrice del monachesimo del secolo x e xi.

L’abbandono di regioni non più coltivate crea poi nuovi “deserti”, prepara luoghi quasi ideali di insediamento alle nuove colonie eremitiche (villaggi e borghi abbandonati, foreste non più coltivate). Aree impervie, talvolta francamente insalubri, montagne, boschi, paludi: la lotta contro gli elementi naturali in questo nuovo tipo di “deserto” sarà l’agone in cui esercitare la ben più complessa battaglia interiore.

Tutto il mondo monastico vive in quest’epoca un tempo di forte tensione riformatrice, in particolare nella direzione dell’eremitismo. Per molti, come per Romualdo, l’esperienza dell’eremo si fa terreno per esperimenti, tentativi, sovrapposizioni, nel quale è spesso impossibile individuare delle delimitazioni rigide tra uno “stato” di vita religiosa e l’altro: ogni monaco vive successivamente e a volte alternativamente fasi di maggior solitudine e isolamento, fasi di vita apostolica, fasi di vita comunitaria più o meno “regolare”. Una modalità indubbiamente rischiosa, che infatti Romualdo si impegna a governare per cercare di arginarne le derive (di cui aveva esperienza diretta!), ma anche estremamente ricca: quasi una nuova forma di xeniteia, di “farsi stranieri”, di ritrovare l’antica sapienza monastica “sposando” la complessità e integrandola nella forma della propria sequela di Cristo.

Come tutti i momenti fontali, pure gli esperimenti monastici dell’xi secolo conosceranno presto una fase di normalizzazione e istituzionalizzazione, anche e proprio sulla spinta dell’attrazione esercitata su tante persone: la radicalità possibile a pochi asceti non sarà di norma sostenibile, sulla lunga, ai grandi numeri.

Questo processo di adattamento è tuttavia anche terreno di esercizio della virtù monastica per eccellenza che è la discretio. Romualdo, asceta rigoroso e severo con se stesso, saprà esercitarla con tenerezza nei confronti dei discepoli, consentendo loro di trovare di volta in volta una misura vivibile, umanizzata, evitando estremi senza futuro. È il suo modo di “portare frutto” come maestro e guida di monaci. Gli agiografi descrivono infatti Romualdo come campione di «discrezione e perfezione»: ciò che appare come un ossimoro nasconde una tensione necessaria, un’incarnazione peculiare e feconda di quella inquietudine che è quasi cifra collettiva e culturale di un’epoca, non solo dell’atteggiamento esistenziale e spirituale di un singolo.

Il caso di Romualdo, emblematico per le sue costanti relazioni con gli ambienti politici e monastici dell’epoca, mostra bene come «in queste contraddizioni, che fecero la sua vita anche visibilmente inquieta, si rispecchiava, in relazione con i turbamenti di un determinato ambiente sociale, uno dei più singolari contrasti della cultura patristica, impegnata a realizzare l’idea greca della perfezione coi libri che narravano la storia tormentata di Israele e di Cristo» (G. Tabacco).

Il ritorno alle fonti monastiche e patristiche, accanto alla Sacra Scrittura e alla Regola di san Benedetto, è caratteristica di Romualdo, così come di tanti che si orientano verso la solitudine e un maggior rigore ascetico. Gli eremiti provengono spesso da ambienti culturalmente privilegiati, e la lettura è per loro una forma importante per approfondire e ampliare la visione della vita monastica, per custodirla, governarla e trasmetterla. Scrive il suo discepolo Bruno di Querfurt: «Romualdo è il più grande eremita dei nostri giorni, eppure questa vita bella e sublime egli la vive umilmente, senza presunzione; segue invece le Conferenze dei padri del deserto, e così insegna a noi la retta via». Accanto alle fonti patristiche, la capacità tutta romualdina di mantenere insieme elementi e tratti talvolta disparati gli consente peraltro di non abbandonare mai il vivo riferimento alla Regola di san Benedetto, né la passione per la lectio biblica.

Tutta la cultura medievale si troverà d’altra parte ben presto coinvolta in questo processo di ritorno alle fonti, non solo in campo religioso, ma anche artistico e letterario: come in altri casi, il monachesimo non fa che assumere, forse entro certi limiti anticipare, e mettere a frutto nella ricerca di Dio tensioni e processi che coinvolgono tutto il proprio ambiente storico.

Il dialogo libero con la cultura contemporanea sembra essere d’altra parte un filo rosso che attraversa la storia delle fondazioni romualdine, fino ad oggi: nei secoli a venire, l’alchimia tra cultura umanistica ed esperienza monastica, con le sue istanze di riforma spirituale, ha avuto talvolta risultati di sorprendente lungimiranza, come l’impressionante visione di riforma della Chiesa in Paolo Giustiniani. Per funzionare, tuttavia, per maturare la propria profezia, ciò sembra richiedere una sorta di pendolarismo, un procedere ritmico tra ritiro e impegno nel mondo, vissuto non come alternanza meccanica ma come dimensione comprensiva, ritmica appunto, in un flusso unitario. Solo questa sospensione lascia spazio allo Spirito, consente di dire il nuovo, di uscire dall’autoreferenzialità in cui la stessa cultura contemporanea, così come l’esperienza ecclesiale, può rischiare di cadere.

Complessità, molteplicità e dinamica interna appaiono caratteristiche dell’esperienza e della figura di Romualdo e rimangono inscritte nei “cromosomi” della spiritualità camaldolese che da lui prende le mosse. Sono motivo di sintonia con la struttura culturale dell’uomo e della donna contemporanei (forse in particolare con la modalità tendenzialmente policentrica che segna — talvolta per necessità — l’agire, il pensare, l’essere credenti delle donne nella realtà attuale). Costringono insomma ancora oggi a fare i conti con una forma mai risolta, mai cristallizzata della ricerca di Dio, della vita cristiana e monastica, personale ed ecclesiale. Ad ascoltare ed assecondare la dinamica dello Spirito, che sempre tende a spalancare porte e a far tremare i muri.

Monache camaldolesi di Sant’Antonio abate in Roma