Cinque anni fa moriva padre Michael Paul Gallagher, professore di teologia fondamentale alla Gregoriana

Poesia del creato

Padre Gallagher in un ritratto di Alfonse Borysewicz
10 giugno 2020

L'umanesimo cristiano di Michael Paul Gallagher


«Teologia poetica», che titolo promettente e insieme un modo di leggere il mondo e la Bibbia — così l’ha concepita Francesco Petrarca sulla scia di tradizioni tardoantiche. Secondo il pensatore, umanista e poeta trecentesco, Dio stesso risulta poeta, creatore, artista, dato che crea tutto mediante la forza e la concisione comunicativa della parola, del Verbo. E si presenta come nome e presenza in un linguaggio variopinto, in nomi inafferrabili e in metafore e simboli quanto mai espressivi e suggestivi. Si crea così un ponte tra sfera divina e quella umana, una dinamica del meta-phorein, del transfert tra la rivelazione di Dio e la fantasia concreativa dell’uomo, che osa chiamare Dio leone, sposo, giardiniere, legislatore, re e usare ancor mille altre forme. E anche il Cristo risulta Figlio e Verbo, pastore e agnello, maestro e giudice, porta e via, servo e Signore, corpo trasfigurato e sofferente, morto e risorgente, ecclesiale ed eucaristico — accompagnando così la strada della ricerca di Dio da parte degli uomini.

Più Dio si esprime congenialmente nella storia della lingua umana e si incarna nella stoffa delle vicende del mondo, più si desta la forza dell’immaginazione degli uomini, dello loro impressionabilità ed espressività, della ricchezza del loro poetare, raccontare e sorge la sequenza impressionante di miti, riti, gesti, poesie e profezie, di tante forme di ethos, mistica, cultura, di musica, pittura, architettura. Come se l’uomo fosse dotato di un senso simbolico, del poter vedere, concepire ed esprimere un di più oltre gli schematismi della vita e della comprensione ordinaria, una fantasia del possibile, che permette un altro accesso alla realtà e ci fa intuire il valore pregnante di un aldilà che ci sarebbe già da sempre vicino. Già Kant, nella sua terza Critica, meno restrittiva delle altre, si era mosso in questa direzione, ma sono soprattutto i poeti e narratori che attuano questa capacità dell’uomo, che danno rilievo a questo campo metaforico che traduce permanentemente tra realtà e linguaggio, tra sfera divina e cultura umana.

Era questo il locus theologicus abitato da padre Gallagher, la musica che ha voluto orchestrare e far sentire. In questa impresa aveva J. H. Newman come grande alleato e fonte di ispirazione, la sua retorica, la sua mediazione tra la ricchezza dell’immaginazione e una ragione che saprebbe leggere le tracce della presenza divina in mezzo alla realtà e far convergere le diverse intuizioni di Dio da parte dell’uomo in una convinzione vissuta. Umanesimo cristiano e il progetto dell’inveramento degli assunti della fede si sposano in questo cammino.

Questo gesto teologico trovava la sua corrispondenza nel modo della presenza umana, dell’amabilità dell’uomo e del gesuita, nella gioia di poter condividere la sue letture, di parlare dei suoi autori teologici e dei poeti prediletti; uno degli autori privilegiati era Wallace Stevens (1879-1955) agnostico, sì, ma dotato di una forza quasi metafisica nel cogliere il gioco metaforico che sottende il tessuto del linguaggio e della ragione umana. E mi ricordo di un bel colloquio che verteva sulle poesie asciutte e (anche teologicamente) ardite di Giorgio Caproni che girano attorno alla impertinenza di un Dio assente che pure ci perseguita — e che gli uomini non possono non braccare per liberarsene; il dramma metafisico di una mistica rovesciata che fa vedere proprio “il rovescio del vangelo” con un linguaggio conciso, pregnante e ferito, allusivo, aperto.

In tutto ciò si annuncia un umanesimo cristiano che non ha nulla di blando, sterile, riduttivo, ma è pregno di vita, di gioia di comunicazione e di socievolezza che lo ha fatto reggere anche alle molte esperienze di sofferenza e di malattia che poi hanno segnato i suoi tardi anni romani. E forse immaginava anche il cielo così, come un luogo di libera comunicazione, di scioltezza poetica, di espressività e sensibilità feconda. Un giorno Karl Barth, domandandosi su chi avrebbe voluto incontrare in Cielo, ha pensato a Schleiermacher, per sottoporre questo suo grande antagonista a un esame di ortodossia teologica. In un’occasione felice, il padre Gallagher ha detto che lui invece avrebbe scelto due donne, dotate di senso drammatico e poetico, di mistica e vitalità in mezzo alle sofferenze: Flannery O’Connor e Teresa d’Avila. Ecco, un cielo aperto dalla e alla socievolezza divina, vivibile, per nulla noioso, ma pieno di poesia.

di Elmar Salmann