Opere d’arte esposte nel carcere di Sollicciano come via di recupero e reinserimento dei detenuti

Oltre il muro

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18 giugno 2020

Se i detenuti non possono andare al museo, è il museo ad andare da loro. L’idea è venuta a Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento di Firenze che ha deciso di portare all’interno della casa circondariale di Sollicciano alcuni dei “suoi” pezzi cercando di sfumare le barriere tra il carcere e la realtà che aspetta fuori i suoi ospiti.

«Perché vedere le opere dal vero è sempre un’esperienza emozionante, è diverso che vederle nei libri», spiega. «I musei hanno un compito fondamentale, quello di sensibilizzare ed educare il pubblico, di sviluppare la creatività. Inizialmente abbiamo pensato di avvicinare i bambini e gli adulti andando a casa loro. Ma ci siamo spinti oltre: ci siamo recati da coloro che non possono venire da noi, dalle persone che vivono la dura prova del carcere».

Il Museo è dedicato all’arte italiana del XX e XXI secolo e propone, oltre a una collezione permanente, mostre e cicli espositivi, installazioni e progetti speciali. La sede espositiva è l’antico spedale delle leopoldine di piazza Santa Maria Novella. «Qui l’esposizione classica, ma poi c’è Outdoor — continua Risaliti — progetto ormai diventato parte di Educare alla bellezza, un piano allestito per conoscere i musei fiorentini già avviato dalla scuola Cpia1 (Centro Provinciale per l’istruzione degli adulti) e che vede partecipare i detenuti e le detenute iscritti e frequentanti i corsi scolastici presenti all’interno del penitenziario».

Insomma l’arte esce dal museo e va incontro al pubblico, ma non a un pubblico qualsiasi, ma a chi è stato allontanato dalle pratiche culturali e siccome l’accesso alla cultura è parte integrante del percorso di esecuzione della pena, la proposta di portare pezzi esemplari al di là del muro, è esemplare. «Alla direzione di Sollicciano l’iniziativa è piaciuta molto — continua Risaliti — anche se ci siamo resi conto fin da subito che trasferire, seppur temporaneamente, opere d’arte di un certo valore dentro un carcere non sarebbe stata cosa facile. Ci siamo avvalsi del supporto di uno staff sia per la fase di trasporto e allestimento, sia per il momento più delicato: quello della presentazione. I nostri esperti hanno spiegato cosa significa restaurare un’opera, quali sono i problemi nel riportare all’origine un dipinto. Non solo. Sono riusciti a far indossare a ciascuno un paio di occhiali speciali durante l’illustrazione delle tele per spiegare nei dettagli come è fatto un quadro, quali sono i colori impiegati, il tipo di pennellata e il tocco dell’artista. Una sorta di performance tra didattica, teatro e mediazione culturale che ha avuto un obiettivo fondamentale, quello di far conoscere anche la materialità dell’opera».

L’arte come strumento per il recupero e il reinserimento dei detenuti, una sinergia di passione e di speranza che ha rivelato, attraverso reazioni del tutto inedite, un saggio di varia umanità anche se vista attraverso il filtro di una cancellata. «A dire il vero l’emozione più grande è stata la nostra, perché abbiamo avvertito immediatamente il superamento di una soglia. Un duro colpo» confessa Risaliti. «E poi l’impatto con loro. Cento, 150 detenuti, tutti insieme. All’inizio un po’ di clamore, poi è calato un silenzio surreale al momento della scoperta dell’opera. Hanno avuto l’opportunità di avvicinarsi, quasi di toccare con mano, di formulare domande di ogni genere, basandosi sui colori o sulla luce, sul contenuto che spesso rifletteva la parabola della loro condizione».

L’iniziativa ha confermato che il carcere non è un contenitore di corpi, ma una fucina di spiriti nella quale la persona è al centro, ha raccontato una comunità che si confronta, discute, fa. Un tocco di colore dietro le sbarre che testimonia come ci sia all’interno delle prigioni un piccolo universo che chiede di partecipare e crescere. «Un ponte tra chi vive una situazione normale e chi una eccezionale, quale quella dei ristretti» conclude Risaliti. «Il carcere non va visto isolato perché ha un prima e un dopo e l’arte si inserisce in un quadro di orientamento formativo. Gli istituti carcerari sono prima di tutto luoghi di rieducazione e la cultura può essere di grande aiuto».

di Davide Dionisi