Dialogo a distanza tra Giulio Giorello e il «funambolo del paradosso» G.K. Chesterton

Nicea e i venditori di salsicce

Giulio Giorello
18 giugno 2020

Pubblichiamo la postfazione a «Eretici» (Piemme, 1998) di G.K. Chesterton firmata dal filosofo e matematico milanese scomparso il 15 giugno scorso.

«Il peccato non è che le macchine siano meccaniche, ma che gli uomini siano meccanici». «La virtù della speranza esiste solo nel terremoto e nell’eclisse». «Se non ci aspettassimo l’inaspettato, perché mai muoverci?». «C’è più semplicità nell’uomo che mangia caviale d’impulso che nell’uomo che mangia uvetta per principio». «Qualunque aristocrazia sia mai esistita, si è comportata esattamente come una piccola marmaglia»...

L’elenco di battute che, staccate dal contesto, sarebbero degli straordinari aforismi, potrebbe continuare a lungo. Ma ce n’è uno che non solo trovo ancor più straordinario degli altri ma anche fornisce, a mio avviso, la chiave (una delle chiavi?) dell’intero Eretici: «Togliete il Credo di Nicea, e farete un qualche strano torto ai venditori di salsicce». Niente, ci insegna Gilbert Keith Chesterton (GKC), è più concreto di un’idea, purché si sappia vivere con essa e, se è il caso, per essa morire. L’esperienza della (umana) finitezza per il creatore di padre Brown è radicale; ma altrettanto radicale è la sua tensione verso l’infinito. «L’uomo non può amare le cose mortali», ci dice. L’uomo «può solo amare cose immortali», anche se «per un istante» — ed è in questo modo che si coniugano insieme il Credo di Nicea e le salsicce.

Oppure, Beer and Bible — birra e Bibbia: il «connubio», scandaloso per il moralista «puritano» di «oggi» (1905, o anche più di novant’anni dopo), non lo era per i Puritani (veri) del New Model Army che resero possibile il primo (e finora unico) esperimento repubblicano in Inghilterra — e che dopo ogni vittoria sapevano celebrare le dispensazioni del Signore a pinte di birra nelle più vicine taverne. Dopotutto, per GKC l’unico modo «veramente pericoloso e immorale» di bere alcol è quello di assumerlo come medicina. L’unica libagione veramente «riprovevole» è quella «terapeutica», quella di chi beve perché non è felice. Non diversamente dall’alcol del cattivo bevitore, anche il moralismo «esclude l’universo, non lo rivela». Ovvero, «il moderno studioso dell’etica, anche se rimane sano, rimane sano per un’insana paura dell’insanità». Credo che a Chesterton non sarebbe dispiaciuto il Lutero incline ai piaceri della carne perché troppo desideroso della Grazia per affidarsi a una asettica «virtù»; certo, non nasconde la sua ammirazione per Oliver Cromwell che «sbraita» mentre dialoga con il suo Dio e si scontra con i suoi uomini; e ama il John Milton che nel Paradiso perduto aveva saputo cantare il potere e la gloria del Signore e che nell’Areopagitica aveva consigliato di «tollerare molti, ma non tutti» — tra gli esclusi quei cattolici (romani) cui Chesterton doveva avvicinarsi con sempre maggior naturalezza. Del resto, Chesterton questo fece «non a dispetto del suo essere libertario, ma proprio perché lo era» (come nota David Friedman, L’ingranaggio della libertà, Liberilibri, Macerata 1997, p. 323). Un paradosso anche questo? Forse, ma sempre con GKC potremmo concludere che di paradossi è fatta la vita.

Se al «libertario» Chesterton il moralismo dispiace, nemmeno l’immoralismo è risparmiato nelle pagine di Eretici: lo «spirito negativo» muove anch’esso dalla sola «certezza del male», anche se talvolta qualcuno degli immoralisti riesce a far propria — come è nel caso del magnifico Oscar Wilde — una filosofia al tempo stesso «potente e desolata». Ma il vizio di fondo di coloro che predicano il «superuomo» al di là di bene e male — come G.B. Shaw o Nietzsche stesso — hanno dimenticato «la prima legge del coraggio pratico. Trovarsi nel campo più debole significa trovarsi alla scuola più forte»: l’imperativo nietzscheano “siate duri” non è che un ornamento retorico per dire “siate morti” (poiché «la sensibilità è la definizione della vita»).

Di nuovo, ecco delle questioni pratiche — che investono cioè, nella quotidiana concretezza, la vita di noi tutti, letterati o baristi, professori di filosofia o venditori di salsicce. Le pagine che Chesterton dedica a Rudyard Kipling sono, da questo punto di vista, esemplari. Non solo per l’anticonformismo di chi osa criticare un profeta, sempre più ufficiale, insieme della «etica moderna» e della potenza inglese; ma soprattutto perché Chesterton ne svela l’intrinseca debolezza: anche Kipling non comprende che «è la forza dell’uomo sdegnare la forza». E il suo «nazionalismo» suona falso, come la sua etica: Kipling non ama l’Inghilterra, bensì l’Impero britannico. Gli piace non il coraggio del patriota in armi per la propria casa o la propria donna (in quel caso Rudyard avrebbe dovuto prendere le parti dei boeri o degli irlandesi), ma la disciplina dell’esercito. Non diversamente dal «puritano» del primo Novecento o dal «superuomo» che pretende di avanzare in letizia dopo aver annunciato la morte di Dio, anche l’imperialista è uomo della organizzazione. La ama e la serve. E uomini dell’organizzazione minacciano di diventare gli esperti scientifici, che «scrivono verità con la V maiuscola» e intendono efficacia, si vantano di quante fedi «immaginano di aver distrutto» e «stanno incominciando a diventare consapevoli della loro stessa forza, vale a dire, stanno diventando deboli». Là dove i corpi (e le menti) degli esseri umani sono direttamente coinvolti, Chesterton scopre il volto di un nuovo ma non meno feroce imperialismo, quello che noi oggi (1998) chiameremmo Stato medico, che pretende di decidere per noi cosa si debba fare per la nostra salute. A questo punto capiamo bene (sulla nostra pelle, per così dire) perché stessero tanto a cuore a GKC il buon vino e la buona birra!

Così, l’epoca della più ampia libertà «di pensiero» è anche quella dei quotidiani e asfissianti proibizionismi. La «moderna teoria etica» si coniuga con la dittatura degli «esperti» — dalla scienza alla democrazia — e «l’esperto è più aristocratico dell’aristocratico» (ovvero, nel lessico di Chesterton, ancor più «marmaglia» della marmaglia). Sia lecito aggiungere che tutto ciò vale anche (o forse, soprattutto) per la democrazia di cui andiamo così fieri in questo scorcio di fine Millennio — così invasa dai democratici di professione, non così diversi, in ultima analisi, dai rivoluzionari di professione di cui GKC si beffa nei suoi romanzi e racconti. In un memorabile capitolo di Eretici Chesterton mostra come «l’umanitarismo moderno» sia «il vero atteggiamento antidemocratico e contrario alla fratellanza». Sta a noi, che viviamo in «democrazie» che si vantano di aver sconfitto i due grandi totalitarismi del secolo, scoprire quegli elementi di totalitarismo che si annidano nelle pieghe della stessa democrazia. Eretici ci dà un buono spunto: al contrario di quel che sostiene la retorica dei moralisti, «la democrazia non è fondata sulla pietà per l’uomo comune» ma «sulla riverenza per l’uomo comune» addirittura «sulla paura nei suoi confronti». Il miglior modo per guardare alla democrazia è — anche qui — l’esperienza della finitezza: la prova di un genuino sentimento democra- tico è, infatti, «la prontezza con cui terremo in conto la mera appartenenza all’umanità in qualunque circostanza estrema legata alla morte». Forse, solo così abbiamo qualche possibilità di realizzare la democrazia non come «una nazione tutta di servi» bensì «tutta di re».

«La cosa più alta non tende soltanto a unire, la cosa più alta tende anche a differenziare». Heretics (pubblicato originariamente nel 1905, da John Lane) non tratta — come constata immediatamente il lettore — di antichi eresiarchi e di più o meno moderne eresie nel senso stretto della storia del cristianesimo e della Chiesa. Il fatto è che per tutti i grandi eresiarchi, scismatici o settari l’eretico era sempre l’altro, l’establishment contro cui ci si ribellava o i nuovi ribelli che non accettavano le regole di chi già si era ribellato. Gli «eretici» di Chesterton sono invece i profeti e insieme i frutti di un «vago relativismo» — coloro che sono alla ricerca di «un mondo dove non ci siano limiti» o meglio «dove non ci sia alcun contorno». GKC li attacca senza alcuna «pietà»: della loro pretesa «infinitezza» «non c’è nulla di più meschino». Essi «dicono che vogliono essere forti come l’universo, ma ciò che vogliono veramente è che tutto l’universo sia debole».

E per questo che ritengo siano particolarmente apprezzabili le pagine di Eretici in difesa del «dogma» (e non c’è nemmeno bisogno di citare Thomas Kuhn o Icore Lakatos per ricordare che, nello stesso campo scientifico, nessuna teoria si formerebbe, nessuna ricerca decollerebbe senza un po’ di «dogmatismo»).

Lo dico da «relativista» non pentito — che tuttavia ha sempre pensato che il relativismo non sia un comodo punto d’approdo, ma l’inquietante situazione di partenza in cui tutte le «ortodossie» (comprese quelle più detestabilmente «eretiche» per me) hanno diritto ai loro pubblici difensori; non riduca lo scontro delle idee a garbata «conversazione», ma sia capace davvero — per dirla con Feyerabend (o con Protagora) — di far diventare forte chi è debole (mostrando insieme la debolezza dei forti); non concluda con il dogma che i dogmi non esistono e che è «sconveniente» non rassegnarsi alla debolezza del pensiero (insomma, si può essere relativisti circa lo stesso relativismo? Non spaventatevi, si può). Di questo relativismo l’ortodossia di cui Chesterton traccia le lodi nelle prime pagine di questo volume è la migliore alleata. E attenti alla profezia di GKC: verranno tempi in cui sarà necessario mettere a rischio anche la vita semplicemente per continuare a proclamare liberamente che due più due fa quattro.

di Giulio Giorello