La foresta silenziosa Mozambico

Martina Zavagli, negli slum di Maputo «Dalle cucine alle scuole, per salvare i bambini»

Martina Zavagli in Mozambico e le stufe economiche dell'Asvi (Courtesy Asvi)
27 giugno 2020

Coordinatrice per l’Avsi in un Paese flagellato da Jihad e uragani. «Mia figlia è nata qui»


Ci sono posti, il Mozambico è uno di questi, dove le emergenze sono la norma. E non al ritmo di una alla volta. Ma tante, tutte insieme. Questo immenso Paese dell’Africa sud-orientale, 800mila chilometri di estensione per quasi 30 milioni di persone, in questo momento fa i conti con la fame, la povertà, l’assalto dei jidahisti al nord (dall’ottobre 2017 il terrorismo ha causato tra 350 e 700 morti e 150 mila sfollati), gli effetti devastanti dei cicloni e naturalmente, il Covid-19.

È in questo contesto che vive e lavora Martina Zavagli, 36 anni, mamma da cinque mesi. La sua bambina è nata qui, in Mozambico, dove lei, imolese di nascita, è arrivata a inizio aprile 2017. «In realtà sono in Africa dal 2011, quasi tre anni in Sudan e due in Rwanda» racconta. Ha scelto di partire perché «spinta dalla curiosità di conoscere mondi diversi. Ho fatto il servizio civile estero in Rwanda, lì ho conosciuto il mondo della cooperazione, ho visto cosa vuol dire mettere a disposizione le proprie competenze per contesti difficili».

Vive a Maputo, capitale del Mozambico e coordina i progetti di Avsi, che sono 15 e interessano le province di Maputo, Cabo Delgado e Zambezia. I problemi da affrontare sono immensi. Intanto per la vastità del paese. Poi per la condizioni di vita della stragrande maggioranza delle persone: quasi la metà, il 46,7 per cento della popolazione, vive al di sotto della soglia di povertà. Una persona su due vive con meno di 0,50 dollari al giorno. Un popolo di poveri. E di poveri giovani. Il 60per cento ha meno di 24 anni. Come se non bastasse, un bambino su quattro è vittima del lavoro minorile.

Avsi è presente nel Paese dal 2010. «Siamo impegnati — racconta Martina — su tre settori: educazione, ambiente, agricoltura. Per quanto riguarda i primi, seguiamo tutto il percorso di istruzione del bambino, dall’asilo alla scuola primaria, secondaria, fino all’università». Un lavoro che parte dai muri per arrivare ai libri: «Ristrutturiamo le scuole, facciamo lezioni agli insegnanti e forniamo materiale scolastico. Seguiamo più di 20mila bambini, perché lavoriamo su varie regioni e più scuole». Il primo «problema» da affrontare è il numero enorme di bambini. «Ogni scuola — spiega — è sovraffollata». Quella elementare, per dire, ha classi formate da una cinquantina di alunni. «E ogni struttura ha qualcosa come 2-3mila studenti». Un problema che si ingigantisce nelle periferie, negli slums dove Avsi lavora. «Non ci sono strutture sufficienti per accoglierli tutti» spiega Martina. Tanto che per potere garantire la possibilità di frequentare i corsi, si fanno i turni: «Si comincia con le prime classi, poi nella seconda parte della mattinata ci sono i bambini più grandi. Perché non c’è la capacità di accogliere tutti». Da qui, il lavoro che stanno facendo: «Cerchiamo di costruire nuove scuole e ristrutturare quelle esistenti per renderle in grado di accogliere più classi».

L’altro settore di intervento è l’ambiente e l’energia. «Negli slums proponiamo la vendita di piani di cottura migliorati». Ossia fornelli elettrici. La maggior parte delle famiglie, infatti, cucina con fornelli a carbone, che comportano notevoli emissioni di CO2. «Il risultato è che si crea molto inquinamento domestico. E questo provoca tante morti per malattie respiratorie. In più costa molto e la gente, qui, non ha i soldi nemmeno per comprare il cibo necessario. I piani di cottura che proviamo a diffondere fanno risparmiare e riducono le emissioni di carbonio, in questo modo cala l’inquinamento e migliora la salute soprattutto delle mamme e dei bambini piccoli che stanno sempre con loro».

E poi c’è l’agricoltura, uno dei pochi settori che dà lavoro, ma che sconta un clima capace di sconvolgere in un giorno la fatica di mesi. Lo scorso anno due uragani, uno nella zona centrale del Paese, l’altro al Nord hanno distrutto parte del Mozambico. «Tante famiglie si sono trovate con case distrutte e con semine completamente da buttare per tutta la stagione. Da allora abbiamo deciso di occuparcene. Abbiamo iniziato a lavorare con i contadini per riprendere la lavorazione e capire nelle loro zone quali sono le problematicità, così da mitigare i rischi dovuti al cambiamento climatico». I danni provocati dai cicloni ancora non sono finiti. «Tuttora molte famiglie sono sfollate». Poi c’è il jihad. Nella provincia di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, è guerra da tre anni: da una parte i ribelli di matrice islamica, dall’altra le forze governative. In mezzo, i civili che si vedono distruggere case, decapitare i familiari. Secondo i dati delle Ong, dal 2017 a oggi sono morte mille persone e centomila sono state costrette a fuggire. Martina vive a Maputo con la famiglia. Ha conosciuto quello che ora è suo marito in Sud Sudan. Cinque mesi fa, hanno avuto una bimba. Da questi anni in Africa ha imparato «a essere paziente, a capire che ci possono essere vite molto diverse dalla mia, ma degne di rispetto, a non dare per scontato nulla, a rispettare ritmi che sono diversi da quelli che possiamo avere noi in Italia, a vivere e ad apprezzare le cose semplici: non c’è bisogno di chissà cosa per essere felici».

di Elisa Calessi