Lo strampalato caso di Ivan Talarico cantautore umanista e umorista

Ivan Talarico
22 giugno 2020

Nel variopinto panorama della musica leggera (non so se si dice ancora così) italiana si aggira un personaggio interessante e inquietante, tal Ivan Talarico, classe 1981, cantautore, poeta e teatrante, così almeno recita l’elusivo e allusivo profilo che si può trovare in Rete.

Invitato da mio figlio, sono andato a vederlo in concerto (non capita tutti i giorni che tuo figlio ti inviti a passare insieme una serata) ed è stato molto divertente. Le sue canzoni fanno spesso sorridere, a volte proprio ridere, i giochi di parole, la maestria vocale con cui riesce a comprimere frasi lunghissime (e sensate) all’interno della metrica, il gusto per un umorismo paradossale e grottesco, l’acutezza con cui descrive i tic e le contraddizioni della contemporaneità, fanno di un suo show un appuntamento da non perdere. Anche il suo fisico allampanato e stralunato contribuisce a creare un’atmosfera surreale dove il nonsense prende spesso il sopravvento e prevale anche sul tono quasi sempre malinconico che esprimono i suoi versi. C’è infatti una spruzzata di amaro che trapela dalle sue canzoni e prima ancora nelle sue poesie raccolte in due volumi pubblicati dalle Gorilla Sapiens Edizioni: Ogni giorno di felicità è una poesia che muore (2014) e Non spiegatemi le poesie che devono restare piegate (2016).

Questo approccio scettico e trasognato e apparentemente disincantato viene però ogni tanto smentito da qualche segnale luminoso, una breccia che si apre, una finestra che lascia intravedere qualche riverbero, come ad esempio nella breve pillola video che ha pubblicato di recente, sempre sul suo profilo di facebook, in cui racconta di aver pulito la casa, cosa che continua a fare «da quando ho circa sedici anni, quindi più o meno da ventitré anni. Prima passo il pannetto per togliere la polvere, poi la scopa per rimuovere lo sporco e poi lo straccio per lavare. Una vita di assistenza alle superfici, alle cose, agli oggetti e mi domando: loro faranno lo stesso con me? Quando sarò vecchio e avrò bisogno d’aiuto, il pavimento ci sarà? Le mensole mi toglieranno la polvere di dosso come ho fatto io per loro milioni di volte? Il lavandino penserà alla pulizia delle mie vene e ai calcoli renali dopo anni e anni di sgorghi e anti-calcare?».

A queste domande la risposta arriva subito, secca, semplice: «No, non lo faranno, perché gli oggetti sono egoisti, avari, pensano solo a se stessi. È il vero limite del capitalismo: dedicare la nostra vita alle cose, agli oggetti che non ci amano, che non ci rispettano, che assorbono soltanto il nostro tempo e i nostri soldi senza mai darci nulla in cambio. La nostra anima, invece, ci è vicina. Il nutrimento che le diamo oggi ci nutrirà per tutto il resto della vita. La cultura ci è amica, quello che abbiamo letto oggi ci accompagnerà in futuro.  E allora viva le cose che non esistono, che non sono fuori, arroganti, ad occupare degli spazi ma che sono dentro a creare degli spazi in noi».

Abbiamo un’anima noi umani e questa anima “ci è vicina”, non occupa spazi ma ne crea dentro di noi. Ci libera così, forse da quella “cosa troppo invadente che si chiama io” come recita la celebre poesia del buon umore di Tommaso Moro. È un umanista in fondo Ivan Talarico, erede del grande santo inglese che pregava per il senso dell’umorismo, un cantautore che ci aiuta a riflettere sul mistero che rimane per noi la nostra stessa esistenza di esseri umani. Nella canzone Il filetto di sgombro pubblicato nel suo primo album musicale L’elefante nella stanza, per l’etichetta Folkificio, Talarico ci ricorda le cose essenziali, anzi la cosa più importante di tutte e ci ammonisce: «L’universo si espande, senza mai scoppiare. / Noi rappresentiamo un nonnulla, però sappiamo amare. / Solo che spesso lo dimentichiamo e perdendo la nostra caratteristica migliore / diventiamo solo ammassi di materia che / corre in ogni direzione». Se vi sentiti così, senza bussola, un ascolto dello scombussolato Ivan Talarico potrebbe aiutarvi, o almeno farvi compagnia, sorridendo.

di Andrea Monda