Nell’ospedale Saint Jean de Dieu, nell’estremo nord del Benin

Le tenaci fiammelle del continente africano

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09 giugno 2020

L’immenso continente africano è costellato di tenaci lucine che risollevano e rischiarano la vita di migliaia di creature — in molti modi ferite — per le quali il Signore ha passione e compassione. L’ospedale Saint Jean de Dieu, a Tanguiéta, nell’estremo nord del Benin, è una di queste lucine. Fondato nel 1970 dai religiosi dell’Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio (i Fatebenefratelli), è un polo d’eccellenza della medicina africana: «Se vuoi aver salva la vita vai a Tanguiéta», si dice in Benin. Nato con 82 posti letto, l’ospedale oggi ne offre 421, ha uno staff di 350 persone ed è diventato centro universitario: ogni anno accoglie 18.000/20.000 nuovi pazienti (di cui 5.000 bambini) provenienti anche dai Paesi vicini: Togo, Burkina Faso, Niger, Nigeria. Alla guida dell’ospedale vi è una comunità di religiosi di San Giovanni di Dio della quale fa parte fra Fiorenzo Priuli, direttore medico del nosocomio e chirurgo: 73 anni (di cui 51 vissuti in Africa), è consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’aids e le malattie infettive. È stato insignito della Legion d’onore dal presidente della Repubblica francese e del titolo di Gran commendatore dell’Ordine del Mono dalle autorità del Benin. Abituato a trascorrere ore in sala operatoria, di sé dice: «Sono grato al Signore che mi ha chiamato a collaborare con Lui nella meravigliosa opera di curare chi soffre e custodire la vita. Se avessi la possibilità di tornare indietro e chiedere a Dio una grazia per la mia vita non riuscirei a chiedergli tanto quanto Lui mi ha donato».

L’ospedale, nel quale i pazienti più indigenti sono assistiti gratuitamente, sorge in una zona nella quale il clima è particolarmente duro: durante alcuni mesi si raggiungono i 43 gradi di giorno e di notte; la stagione secca dura oltre sei mesi e ciò favorisce il diffondersi di malattie quali morbillo, tifo e meningite che colpiscono anche in forma epidemica. Ai pazienti afflitti da queste patologie che accorrono all’ospedale si aggiungono i moltissimi colpiti da malaria, aids, epatiti e gastroenteriti, tutte patologie particolarmente diffuse in Benin. «Qui si lavora giorno e notte, senza sosta», racconta fra Fiorenzo. «Il reparto di pediatria, ad esempio, conta 111 posti letto, ma non ha mai meno di 130-140 pazienti e, nella stagione delle piogge, quando imperversa la malaria, anche 300. Purtroppo, nonostante la situazione sia migliorata, accade ancora oggi che i bambini giungano in ospedale quando ormai versano in condizioni gravissime perché i genitori hanno preferito cercare di farli curare dai guaritori. La religione più diffusa è infatti l’animismo nel nord e il feticismo nel resto del Paese. I cristiani sono il 15 per cento della popolazione, i musulmani il 15-18».

In questa area del Paese la povertà è largamente diffusa e sono centinaia anche i bambini colpiti dalla malnutrizione grave. Nell’ospedale è stato aperto un centro nutrizionale con 60 posti letto: i piccoli restano ricoverati mediamente due mesi, sono curati e nutriti con alimenti particolari mentre alle mamme si insegnano i principi della corretta alimentazione. Quando i bambini fanno ritorno nei loro villaggi continuano ad essere accuditi a livello ambulatoriale: grazie all’impegno dell’ospedale sono infatti sorti in questa zona 25 centri di salute, dotati di dispensario e sala parto, che con ambulanze assicurano il trasporto in ospedale dei malati più gravi e seguono i pazienti dimessi.

Nelle scorse settimane la pandemia di covid-19 ha raggiunto anche il Benin, che ha avviato una campagna di prevenzione distribuendo disinfettanti, installando fontanelle pubbliche, isolando i casi sospetti. In questo Paese, abitato da circa 7 milioni di persone, il numero dei contagi e dei decessi è rimasto molto esiguo. «Non sappiamo perché la popolazione sia per ora al riparo da questo virus», afferma fra Fiorenzo. «Forse ciò è dovuto all’infezione malarica che tutti noi abbiamo e alla feroce selezione naturale che c’è in questo continente. Purtroppo però la paura di contrarre il covid-19 sta uccidendo infinitamente di più di quanto farebbe il virus stesso». Moltissimi malati cronici e pazienti seguiti ambulatorialmente non vanno negli ospedali per paura di infettarsi e finiscono per aggravarsi e morire in casa dopo essersi rivolti ai guaritori. «Ci auguriamo che la situazione muti al più presto», dice fra Fiorenzo: «Intanto ci prendiamo cura dei pazienti più gravi che continuano a venire in ospedale e aspettiamo che riaprano le frontiere per poter assistere i pazienti provenienti dai Paesi limitrofi e accogliere gli specialisti europei che, utilizzando giorni di ferie, vengono periodicamente qui per effettuare interventi particolarmente complicati». In attesa che ciò accada e guardando al futuro fra Fiorenzo segue i nuovi progetti fra i quali la costruzione di un nuovo e più ampio pronto soccorso.

di Cristina Uguccioni