Incontri e parabole nelle campagne del lodigiano

Lasciarsi addomesticare

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25 giugno 2020

Una pagina accorata della Delbrêl


Una ventina d’anni fa, capitò tra le mani dell’allora rettore del seminario di Lodi (adesso parroco di Codogno, primo focolaio italiano del covid-19) una pagina accorata di Madeleine Delbrêl. Il testo paragonava il prete al cane del pastore. Di pastore ce n’è uno solo. Tuttavia per custodire il gregge ha bisogno di collaboratori, di cani appunto. I cani pastore, i “cani del pastore”, sono animali strani: difendono le pecore, restando parenti stretti dei più temuti nemici del gregge: i lupi che vengono a rapire e disperdere. Anzi, si dice che i migliori cani da pastore siano quelli più somiglianti ai lupi. Di quei famelici animali conservano la forza, l’impeto a tratti violento e rapace, la sveltezza tattica, la resistenza, la capacità di agire in branco, la fierezza che li rende autorevoli. Sono animali focosi, ma si sa che la fiamma che divora le foreste è la medesima che illumina e scalda la casa. Si tratta di saperla addomesticare.

La vera gloria dei primi antichi pastori non fu custodire le pecore (compito non così difficile), ma addomesticare i lupi, trasformandoli da pericoli mortali in gelosi custodi di gregge. Addomesticare un lupo non è facile, né per il pastore né per il lupo. I due devono imparare ad intendersi, abituarsi l’un l’altro. Ciò comporta lungo tempo, molti equivoci e fraintendimenti, ribellioni e riavvicinamenti, carezze e bastonate, delusioni e sorprese. Ciascuno deve trovare i modi per farsi capire dall’altro che parla una lingua straniera. L’uomo deve lasciare la sua casa e stare nella solitudine col lupo e questi paga carissima la vicinanza al pastore: l’esclusione dal branco, una volta per sempre. Un pastore capace non cancella nulla del lupo, tutto gli è utile: somigliando ai nemici del gregge, il suo cane saprà tenerli alla larga, o affrontarli. Cristo non chiede ai lupi di diventare barboncini; ma lavora affinché i lupi (proprio loro!) si affezionino al suo gregge. Pietro era un lupo; fu scelto dal pastore affinché pascesse le sue pecorelle. Ogni prete è un lupo che sta diventando cane del pastore. Ci vuole tutta la vita.

Il rettore voleva la foto di un cane pastore da pubblicare sul giornalino del seminario accanto alla pagina della Delbrêl. D’inverno le praterie della pianura lombarda sono visitate da greggi; lì trovano comunque qualcosa da mangiare. Gli dissi che avevo avvistato un branco di pecore nella campagna vicina, sicché fui inviato a fotografarne il pastore e il relativo cane. Attrezzato di tutto punto, mi diressi alla volta del gregge. Per dichiarare le mie intenzioni, m’incamminai verso il pastore, lontano qualche centinaio di metri. Ma essendomi avvicinato alle pecore, immediatamente un cane mi puntò, caricandomi con fare per nulla pacifico. Per calmare l’animale (e me), gli dissi che non doveva temere perché, in fondo, eravamo colleghi.

Ma non furono le mie francescane parole a pacificarlo; l’effetto desiderato l’ottenne un bel fischio del pastore, che subito trasformò quella macchina da guerra in un accompagnatore scodinzolante (e comunque all’erta) che mi condusse dal guardiano delle pecore. Custodisco il ricordo dell’unico incontro con quell’uomo semplice — allora poco più che trentenne, come me — come un tesoro appena scoperto, ma che si desidera subito seppellire di nuovo.

Avvertito del mio intento, il pastore si mise in bella posa, intimando al cane di far altrettanto. Ma appena l’animale si vide al centro dell’attenzione, rifiutò di starsene fermo. Stette immobile giusto il tempo di uno scatto, poi si voltò agilmente, alzò le zampe anteriori fino al petto del pastore per appoggiarvi il muso devoto. L’uomo ricambiò il gesto, affondando la mano nel pelo soffice del cane, come una robusta carezza. Chissà da dove venivano, dove abitavano. Essendosi abituati l’uno all’altro, senza dubbio si sentivano a casa, anche se sperduti in quell’aperta campagna, esposta al freddo invernale. Si erano addomesticati l’un l’altro. Più il cane (il lupo) al pastore, o il pastore al cane? Chissà.

di Giovanni Cesare Pagazzi

 

II lupo e il cane


Quando un gregge è piccolo e le pecore sono docili e vi sono pochi lupi o non ve ne sono affatto, il pastore può far a meno del cane. Quando il gregge è grande e le pecore sono vagabonde, non una sola ma a branchi, e i lupi sono numerosi, bisogna che il pastore abbia un cane e magari più di uno. I cani somigliano sempre ai lupi, e spesso i migliori cani da pastore sono proprio i cani lupi. E quel che hanno conservato del lupo che permette loro di fare per il pastore ciò che lui stesso non farebbe: fiutano, corrono, si arrampicano alla maniera degli animali che sono. Ma è quel che il pastore ha comunicato loro di se stesso che fa di essi dei cani da pastore: amare le pecore come un pastore o come un lupo, non è affatto la stessa cosa. È condividendo un po’ la vita del pastore che il cane rimane un cane e non diventa un lupo. Non vive più nei boschi, ma accanto alla casa del pastore. Si nutre del cibo dell’uomo. Ode la voce dell’uomo. È l’uomo che lo chiama senza tregua a sé, è l’uomo che lo manda incessantemente alle frontiere del gregge. I suoi due estremi sono la testa del gregge e i piedi del pastore. Le pecore non possono né ritrovarsi le une le altre, né difendersi. Ma non diventeranno mai lupi. I cani possono ritrovare le pecore e difenderle, ma c’è sempre un lupo nascosto dentro di loro; possono tornare ad esserlo. Ai piedi di San Domenico, in San Pietro a Roma, c’è un cane simbolo della sua missione. L’ovile della Chiesa, in certi periodi, ha bisogno di cani da pastore. In queste ore, il Signore li ha sempre fatti sorgere. Se sono fedeli, li si riconoscerà sempre da due cose: le spine e i morsi sulle zampe, il segno del collare intorno al collo. Come tutti i cani pastori, porteranno la contraddizione di essere al tempo stesso gli amici dell’uomo e gli antichi abitatori della giungla. Come tutti i cani pastori, un giorno o l'altro riceveranno la «correzione» del pastore... perché non possono capire tutto ciò che egli dice. Come tutti i cani da pastore, saranno disprezzati, ai margini del bosco, un giorno, una sera, a causa del collare dell’uomo.

di Madeleine Delbrêl

Testo tratto da «Madeleine Delbrêl, Strade di città, sentieri di Dio» di Christine de Boismarmin (Città Nuova, 1978)