La struggente bellezza di una città deserta e il dolore di non poterla condividere

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02 giugno 2020

I giorni son diventate settimane, le settimane mesi. Questa pandemia ha interrotto il flusso incessante di pendolari che ogni giorno arriva a Roma dai paesi vicini per raggiungere il proprio luogo di lavoro. In mezzo a quelle centinaia di migliaia di persone ci sono anche io.

Per quasi tre mesi, di Roma ho vissuto le narrazioni che arrivavano dai media, i commenti di romani più o meno famosi, tutti a raccontare l’improvviso deserto che era diventato, le consolari di solito bloccate dal traffico splendidamente vuote, il centro storico senza un turista che sia uno. Una città svuotata che lasciava trasparire, senza i soliti elementi di caos e affollamento, tutta la sua bellezza impareggiabile.

Agli inizi della scorsa settimana, dopo oltre due mesi e mezzo di assenza, sono tornato a coprire quel percorso fatto per anni tutti i giorni. Sono tornato a Roma. Grazie anche al lento ritorno alla normalità autorizzato dai nostri governanti. Ho avuto così modo di confrontare tutte le narrazioni sentite dall’inizio della pandemia con il mio sguardo, il contatto, l’esperienza diretta.

L’immaginazione ha, per l’ennesima volta, mostrato i suoi limiti. Perché la realtà va vissuta, toccata con mano, solo così possiamo renderci conto di quanto sia immensa rispetto alla nostra capacità di ricrearla.

Roma si è mostrata come mai l’avevo vista. Nuda.

Questa è la sensazione che ho avuto attraversando il suo centro storico, aperto anche ai non residenti per la sospensione dei varchi Ztl. Una città nuda e incantevole, lussureggiante dentro un’aria quasi estiva. Di una bellezza da piangere, da ringraziare Dio per aver dato a noi uomini una particella del suo talento nel creare meraviglia per gli occhi.

L’ho attraversata tutta. Da Monteverde a Trastevere, da Trastevere a Caracalla, poi su verso il Colosseo, via Labicana, San Giovanni in Laterano, poi il Celio, ancora Caracalla…

Al principio del mio singolarissimo tour ho dato più volte ragione ai tanti estensori di articoli letti durante la clausura domestica: in queste condizioni, Roma offre per intero tutta la sua unicità. Mentre il tour proseguiva, però, ho iniziato lentamente a mutare sguardo, e opinione. Perché tutto quel silenzio, tutta quella solitudine, erano qualcosa di bellissimo e al contempo disumano. Erano il trionfo dell’egoismo, della smania di possesso. Avere l’illusione di essere proprietari veramente di qualcosa, di una città intera ai nostri piedi, tutta per noi. Come se solo noi avessimo il diritto di goderla.

Non solo.

Alla fine del mio tour, avevo nostalgia degli altri, di tutta l’umanità che vive accanto a me, e che rende la bellezza del creato ancora più bella. Perché la solitudine non moltiplica nulla, a parte il nostro ego. Perché la nostra Capitale ha bisogno di uno scatto dentro la modernità, non di un deserto imposto da una pandemia.

Roma l’ho lasciata così, nuda e sola. Lungo la via Appia, la consolare dove è scorsa tutta la mia vita, le ho detto “A presto”.

Le ho promesso che tornerò a trovarla quando tutto sarà finito, quando saremo in milioni, con il naso in su e gli occhi strabiliati, a commuoverci di fronte alla sua eterna bellezza.

di Daniele Mencarelli