Caritas Internationalis e Comunità di Sant’Egidio alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato

La preghiera e l’azione

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19 giugno 2020

Politiche di accoglienza che assicurino dignità e sicurezza, oltre a beni primari come cibo, acqua, assistenza sanitaria, specialmente in questo periodo di pandemia: hanno bisogno di garanzie i rifugiati — 33,4 milioni da ben 145 paesi quelli che nel 2019 sono stati costretti a prendere la strada dell’esilio — «vittime di violenza, paura e soprattutto di un sistema ingiusto». La richiesta di Caritas Internationalis giunge alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato che si celebra domani 20 giugno ed è rivolta ai leader politici mondiali. In una dichiarazione, il segretario generale Aloysius John esorta a prendere «decisioni coraggiose» per tutelare i profughi, uomini e donne con «dignità, valori, diritti». Non numeri ma volti, storie di sofferenze indicibili. Fra tante cose la pandemia ha fornito un’importante lezione, scrive John, «la necessità della solidarietà globale per combattere qualsiasi problema affligga l’umanità». Occorre allora un modo nuovo per rispondere al dramma dei rifugiati, che passi da un’analisi onesta delle cause del fenomeno migratorio, dallo sviluppo di un sistema economico più equo, da un’empatia che si trasformi in pari opportunità. Per loro la sfida di vivere con dignità diventa ancora più difficile ai tempi del coronavirus: «Come può la comunità internazionale non udire le grida di questi sfollati che soffrono in silenzio?», si chiede la Caritas, richiamando alla responsabilità di ognuno nei confronti di chi è stato sradicato dalla propria casa.

Nel pomeriggio di ieri 18 giugno, a Roma, nella basilica di Santa Maria in Trastevere, sono risuonati alcuni fra i nomi di coloro che sono morti nel tentativo di raggiungere l’Europa. «Morire di speranza», la veglia di preghiera promossa dalla Comunità di Sant’Egidio e da altri organismi (tra essi Centro Astalli, Caritas Italiana, Migrantes, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia), ha voluto fare memoria di quei morti. «Ciascuno di loro è prezioso agli occhi di Dio — ha detto nell’omelia monsignor Stefano Russo, segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei) — e lui, che non dimentica nessuno, aiuti noi, le nostre comunità di fede, il nostro Paese, la speranza di chi cerca un approdo di bene, di vita, di pace. Se siamo qui è perché non solo non ci sentiamo dispensati, ma perché sappiamo che Gesù non è mai indifferente. È la sua presenza a donarci nuovamente l’audacia e la forza: della preghiera e del gesto».

Dal 1990 a oggi, rileva la Sant’Egidio, nel mar Mediterraneo e lungo altre rotte dell’immigrazione verso l’Europa sono morte 40.900 persone, un «conteggio drammatico» che si è ulteriormente aggravato nei primi mesi del 2020 quando, nonostante la situazione di emergenza causata dal covid-19, le vittime, molte provenienti dai campi di detenzione in Libia, sono state 528, per metà donne e bambini. Una «tragedia dell’umanità» che non può essere ignorata. Nel tempo della pandemia, si è chiesto monsignor Russo, «come non pensare a chi è costretto nei campi profughi sovraffollati, a chi non vede alcuna via di uscita?». In Africa, Asia («pensiamo ai Rohingya»), nel campo di Moira a Lesbo, oppure «lontano da noi, a Tapachula, di fronte al confine con il Messico», o nei campi libanesi stracolmi di siriani: «Luoghi di dolore dove, più di prima, mancano cibo, vestiti, tende, cure sanitarie». Luoghi, è la richiesta pressante di molte organizzazioni, dove è più che mai urgente aprire corridoi umanitari. Ma il pensiero di Russo — che ha ricordato le tante esortazioni di Papa Francesco a «remare insieme», nella condivisione, «senza lasciare fuori nessuno» — è andato anche alle badanti, alle colf, alle immigrate che in queste settimane si sono prese cura degli anziani, ai tanti stranieri da far emergere dalla condizione di invisibili come “nuovi europei”, valorizzando il loro lavoro così prezioso per l’Italia.

di Giovanni Zavatta