Nel giorno di Pentecoste di sessanta anni fa, il 5 giugno del 1960, il santo Papa Giovanni XXIII, con il motu proprio Superno Dei nutu, istituì il Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani e, il giorno successivo, nominò come suo presidente il gesuita tedesco Augustin Bea, rettore dell’Istituto Biblico, che era stato creato cardinale alla fine del 1959 e che, in seguito, venne descritto con il bellissimo appellativo di “cardinale dell’unità”. Verso la fine del concilio, il cardinale Bea paragonò le origini e la fondazione del Segretariato con il granello di senape di cui parla il Vangelo, «tanto esse erano semplici e quasi insignificanti». Il granello di senape, lo sappiamo, è il più piccolo dei semi, ma è destinato a una crescita abbondante.
L’istituzione e la promozione pontificia del Segretariato
Il primo impulso per l’istituzione del Segretariato venne dall’arcivescovo di Paderborn, monsignor Lorenz Jäger, convinto pioniere dell’ecumenismo dopo la seconda guerra mondiale e fondatore del Johann-Adam-Möhler - Institut für Konfessions und Diasporakunde nel 1957. Papa Giovanni XXIII accolse tale iniziativa, perché corrispondeva alla visione che aveva del concilio Vaticano II, una visione che affiorò in lui in maniera significativa durante la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Le due principali preoccupazioni che motivarono Papa Giovanni XXIII a convocare il concilio erano infatti strettamente legate, vale a dire il rinnovamento della Chiesa cattolica e il ripristino dell’unità dei cristiani. Il Pontefice era convinto che, per rinnovare la Chiesa cattolica, fosse essenziale riservare un ruolo prioritario all’opzione ecumenica.
Affinché questa visione potesse fornire un orientamento al concilio, due anni prima che il concilio venisse convocato egli istituì il Segretariato con un intento preciso, come afferma il motu proprio: «Per mostrare in maniera speciale il nostro amore e la nostra benevolenza verso quelli che portano il nome di cristiani, ma sono separati da questa Sede Apostolica». Poco dopo l’istituzione, furono nominati quindici consultori e dieci membri, tra cui il primo segretario, Johannes Willebrands, che successe al cardinale Bea come presidente dopo la sua morte nel 1968. Alla luce delle differenze di non scarso rilievo che esistono tra le Chiese ortodosse e le Chiese e le comunità ecclesiali nate dalla Riforma, nel 1962 il Segretariato fu strutturato in due sezioni, quella orientale e quella occidentale, tuttora attive.
Quanto Papa Giovanni XXIII avesse a cuore l’impegno ecumenico e, di conseguenza, quanto fortemente lui abbia promosso il Segretariato risulta evidente soprattutto in due decisioni che prese. Poiché all’inizio il Segretariato, diversamente dalle commissioni del concilio, aveva una competenza limitata essendo un organo preconciliare, Papa Giovanni XXIII, nell’ottobre del 1962, gli conferì lo stesso status delle commissioni. Il Segretariato divenne così una Commissione i cui membri non erano però eletti dal concilio, motivo per cui all’epoca tale decisione venne definita una “rivoluzione di palazzo”. La seconda decisione con la quale Papa Giovanni XXIII mostrò una particolare fiducia nei confronti del Segretariato fu quella adottata nel novembre del 1962, quando affidò il compito di studiare ulteriormente lo Schema sulle fonti della rivelazione, la cui discussione aveva messo il concilio in grande difficoltà, a una commissione mista composta dalla Commissione teologica e dal Segretariato.
I frutti ecumenici nel concilio
I primi compiti assegnati al Segretariato furono inizialmente quelli di trasmettere l’invito di Papa Giovanni XXIII alle altre Chiese e comunità ecclesiali, di inviare osservatori al concilio Vaticano II, e di prendersi cura di loro durante il concilio. Al Segretariato fu chiesto inoltre di preparare vari documenti e di presentarli al concilio. Tra questi, figurano soprattutto il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae e, redatta in collaborazione con la Commissione teologica, la costituzione dogmatica sulla rivelazione divina Dei verbum.
Il lavoro del Segretariato in seno al concilio contribuì in modo significativo a mantenere sveglia e ad approfondire la causa ecumenica. Molti frutti erano già emersi alla fine del concilio. Il 4 dicembre del 1965, Papa Paolo VI celebrò una liturgia della Parola nella basilica di San Paolo Fuori le Mura, alla quale presero parte i padri conciliari e gli osservatori delle varie Chiese cristiane. Alla fine della liturgia, il Pontefice donò a tutti gli osservatori una campanella di bronzo e un diploma di partecipazione. Questo evento può essere considerato come il primo servizio ecumenico presieduto da un Papa a San Paolo Fuori le Mura, un servizio che è diventato il punto di partenza della bella tradizione instauratasi successivamente, quando ogni anno il Vescovo di Roma, nel giorno della festa della conversione dell’apostolo Paolo, conclude la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani con la celebrazione solenne dei vespri in presenza dei rappresentanti delle varie Chiese e comunità ecclesiali presenti a Roma.
Un evento ancora più incisivo ebbe luogo il 7 dicembre del 1965, quando in contemporanea nella basilica di San Pietro a Roma e nella chiesa patriarcale di San Giorgio al Phanar a Costantinopoli, a nome dei due sommi rappresentanti delle due Chiese fu letta la dichiarazione comune con la quale i reciproci anathemata del 1054 venivano rimossi «dalla memoria e dal centro della Chiesa» in modo che non potessero più rappresentare «un ostacolo al riavvicinamento nell’amore». Avendo così affidato all’oblio i tragici eventi del 1054 e avendo rimosso il veleno della scomunica dall’organismo della Chiesa, il 7 dicembre del 1965 è diventato il punto di partenza per la riconciliazione nella Chiesa tra Oriente e Occidente.
Questi due importanti eventi mostrano quanto avesse a cuore la causa ecumenica anche il grande Papa conciliare, san Paolo VI. Fin dall’inizio della seconda sessione, nel suo fondamentale discorso di apertura, egli sottolineò che il riavvicinamento ecumenico tra cristiani e Chiese separate era uno degli obiettivi centrali, ovvero il dramma spirituale, per il quale il concilio Vaticano II era stato convocato. Secondo questa visione di fondo, Papa Paolo VI era convinto che gli sforzi ecumenici della Chiesa cattolica non potessero terminare con il concilio, ma che il concilio rappresentasse solo un inizio. Pertanto, con il suo motu proprio Finis Concilio del 3 gennaio 1966, dichiarò il Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani dicastero permanente della Curia romana e confermò la sua struttura con la costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae del 15 agosto 1967. Infine, con la costituzione apostolica Pastor Bonus del 28 giugno 1988, il nome del Segretariato fu cambiato da Papa Giovanni Paolo II in Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.
I compiti del Segretariato
Secondo tale costituzione, il Pontificio Consiglio ha un duplice ruolo. Il primo è quello di promuovere l’autentico ecumenismo all’interno della Chiesa cattolica conformemente alle linee guida stabilite nel decreto conciliare Unitatis redintegratio. Con questo obiettivo in mente, tra il 1967 e il 1970 il Consiglio ha messo a punto il Direttorio ecumenico, che è stato in seguito rielaborato sulla base della promulgazione dei due nuovi codici giuridici, il Codex iuris canonici del 1983 e il Codex canonum Ecclesiarum orientalium del 1990, per essere poi approvato da Papa Giovanni Paolo II il 25 marzo 1993 e ripubblicato. Il Direttorio si intende come una guida per l’attuazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo e per l’implementazione pratica dell’obbligo ecumenico nella vita di tutti i giorni.
Come mostra il terzo capitolo, dedicato alla «formazione all’ecumenismo nella Chiesa cattolica», il Direttorio pone una forte enfasi sulla formazione ecumenica di tutti i battezzati: «Scopo della formazione ecumenica è che tutti i cristiani siano animati dallo spirito ecumenico, qualunque sia la loro particolare missione e la loro specifica funzione nel mondo e nella società» (n. 58). Affinché la Chiesa possa adempiere a questo compito, il Direttorio evidenzia soprattutto l’importanza della formazione ecumenica di coloro che saranno attivi nella pastorale. Per sottolineare ulteriormente questo compito, nel 1998 il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha pubblicato un proprio documento intitolato La dimensione ecumenica nella formazione di chi si dedica al ministero pastorale.
Nelle Chiese locali, i principali responsabili della promozione dell’unità dei cristiani sono i vescovi diocesani. Il Codex iuris canonici lo afferma parlando dell’obbligo ecumenico del vescovo nel contesto della descrizione del suo ministero pastorale (Can 383 § 3 Cic, 1983). Il Codex canonum Ecclesiarum orientalium dedica al compito ecumenico un capitolo intero, ricordando che la «sollecitudine di ristabilire l’unità» è particolarmente raccomandata ai pastori della Chiesa (Can 902-908 Cceo, 1990). Ciò mette in risalto il fatto che il ministero pastorale del vescovo è essenzialmente un servizio all’unità, un’unità che deve essere intesa in maniera più ampia rispetto all’unità della propria Chiesa, abbracciando anche i battezzati non cattolici. Al fine di aiutare i vescovi, in particolare coloro che sono stati appena nominati, ad assumersi questa responsabilità, il Pontificio Consiglio ha redatto un «Vademecum», che sarà pubblicato in autunno con la benedizione di Papa Francesco.
Ancora più importanti dei documenti sopra citati sono gli incontri che avvengono direttamente con le varie Chiese e comunità ecclesiali cristiane. Collaborare con loro e coltivare il dialogo della carità e della verità è il secondo compito del Pontificio Consiglio. Negli ultimi sessant’anni, i numerosi incontri, le varie conversazioni e lo scambio di visite tra le Chiese e le comunità ecclesiali hanno creato una rete di relazioni amichevoli che formano una solida base per i dialoghi ecumenici. Nel frattempo, il Pontificio Consiglio ha allacciato e continua a condurre tali dialoghi con quasi tutte le Chiese e le comunità ecclesiali cristiane: la Chiesa assira dell’Oriente e le Chiese ortodosse orientali, come i copti, gli armeni e i siriani, le Chiese ortodosse della Tradizione bizantina, le Chiese e le comunità ecclesiali nate dalla Riforma come i luterani, i riformati, i battisti e i mennoniti, la Comunione anglicana mondiale e il Consiglio metodista mondiale, i veterocattolici e le varie Chiese libere, le comunità evangelicali e pentecostali, le quali hanno registrato una crescita sorprendente specialmente nel XX secolo e all’inizio del XXI. È in corso inoltre un’ampia collaborazione con il Consiglio ecumenico delle Chiese a Ginevra.
Da questi dialoghi è stato possibile raccogliere molti frutti positivi, come ha illustrato a esempio il cardinale Walter Kasper nel suo libro Harvesting the Fruits, pubblicato nel 2009. Nonostante questi risultati positivi, non si può ignorare, però, che l’obiettivo reale del movimento ecumenico, vale a dire il ripristino dell’unità della Chiesa, ovvero dell’intera comunione ecclesiale, non è stato ancora raggiunto. Anche a sessant’anni di distanza dall’istituzione del Pontificio Consiglio, sorge la stessa domanda con la quale il santo Papa Giovanni Paolo II inizia il terzo capitolo della sua enciclica sull’impegno ecumenico Ut unum sint, pubblicata venticinque anni fa, il 25 maggio 1995, ovvero la domanda su quanto sia lungo il cammino che «ci separa ancora da quel giorno benedetto in cui sarà raggiunta la piena unità nella fede e potremo concelebrare nella concordia la santa Eucaristica del Signore». In vista di questo obiettivo del movimento ecumenico, i risultati raggiunti finora, per Giovanni Paolo II «non sono che una tappa, anche se promettente e positiva» (n. 77).
Al servizio dei Papi impegnati nell’ecumenismo
Si tratta dunque di procedere su questo cammino con appassionata pazienza. Per il Pontificio Consiglio, ciò risulta facile soprattutto perché ha sempre potuto contare sul sostegno dei vari Pontefici, per conto dei quali assolve il proprio mandato. Difatti, i diversi Pontefici che si sono susseguiti dopo il concilio hanno portato avanti, promosso e approfondito l’impegno ecumenico. Questo è particolarmente vero nel caso di Papa Giovanni Paolo II, fortemente convinto che il terzo millennio avrebbe dovuto affrontare il grande compito di ripristinare l’unità dei cristiani andata persa nel corso dei secoli. Per lui, fu fondamentale evidenziare lo stretto legame tra l’ecclesiologia conciliare e la codificazione del diritto della Chiesa universale anche nella prospettiva della responsabilità ecumenica della Chiesa cattolica. E nella sua pionieristica enciclica Ut unum sint, osservò che la via ecumenica è la via della Chiesa ed è «irreversibile» (3).
Nel suo pontificato, anche Papa Benedetto XVI ha riconosciuto una speciale priorità all’obiettivo ecumenico. Già nel suo primo messaggio dopo la sua elezione al soglio pontificio, egli ha dichiarato in maniera programmatica che l’obbligo primario del successore di Pietro era quello «di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere» (Primo messaggio nella Missa pro Ecclesia del 20 aprile 2005). Ai suoi occhi, l’obiettivo ecumenico consiste nel ricomporre l’unità della Chiesa come comunità che vive nella fedeltà al Vangelo e alla fede apostolica. L’ecumenismo è quindi, a livello profondo, una questione di fede e di unione di tutti i battezzati nella preghiera sacerdotale del Signore, il quale prega che tutti siano una cosa sola.
Papa Francesco prosegue il cammino del dialogo ecumenico col proprio stile. Per lui è particolarmente importante che i vari cristiani e le varie comunità ecclesiali progrediscano insieme sulla via dell’unità e che insieme camminino, preghino e collaborino. Egli è convinto che l’unità cresce quando si cammina gli uni con gli altri e che fare insieme la stessa strada significa già vivere l’unità, come ha dimostrato ad esempio in maniera eloquente con l’incontro memorabile avuto con il patriarca Cirillo, capo della Chiesa ortodossa russa, nell’aeroporto dell’Avana a Cuba, il 12 febbraio 2016, o con la sua partecipazione alla commemorazione comune della Riforma a Lund, in Svezia, il 31 ottobre 2016. Anch’egli, nel primo discorso pronunciato dopo l’inizio del suo pontificato, ha espresso la ferma volontà di proseguire il cammino del dialogo ecumenico. In questo contesto, egli ha affermato: «Ringrazio sin d’ora il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, per l’aiuto che continuerà a offrire, in mio nome, per questa nobilissima causa» (20 marzo 2013).
Il Pontificio Consiglio, da parte sua, è riconoscente per l’espressione di questa gratitudine, nella consapevolezza dell’obbligo che gli spetta di promuovere l’unità dei cristiani con tutte le sue forze e nella convinzione che non ci sia assolutamente alternativa all’ecumenismo. L’ecumenismo è indispensabile per la credibilità della fede cristiana e per la missione della Chiesa nel mondo di oggi, e corrisponde alla volontà del Signore, come ha chiaramente sottolineato Papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Pertanto, l’impegno per un’unità che faciliti l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera diplomazia o un adempimento forzato, per trasformarsi in una via imprescindibile dell’evangelizzazione» (246).
Guardando indietro, a oltre sessant’anni fa, il paragone fatto dal cardinale Bea tra l’istituzione del Pontificio Consiglio e il granello di senape si rivela calzante. Come il granello di senape, il Consiglio era piccolo al suo inizio, ma nel frattempo è cresciuto. Ciò che conta però in primo luogo non è la sua dimensione, ma il fatto che — come evidenziano tutte le parabole della crescita nei Vangeli — la crescita non è una conquista umana, ma un dono di Dio. Il concilio Vaticano II era giustamente convinto che il movimento ecumenico fosse un frutto dello Spirito Santo. Pertanto, daremmo prova di scarsa fede se non ci fidassimo dello Spirito Santo e della sua capacità di portare a compimento — ovviamente nel momento e nel modo in cui lui vorrà — ciò che ha avviato in maniera così promettente. Ascoltarlo e seguirlo è l’imperativo dell’ecumenismo anche oggi.
Con questa fiducia, il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani comprende il sessantesimo anniversario della sua istituzione come un obbligo: quello di proseguire il cammino ecumenico a nome e nel mandato di Papa Francesco e al servizio di tutta la Chiesa, affinché la preghiera del Signore possa compiersi in maniera sempre più credibile: Ut unum sint.
di Kurt Koch
Cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani