Quattro pagine - Approfondimenti di cultura, società, scienze e arte

La nave più bella del mondo

La Nave scuola Amerigo Vespucci
26 giugno 2020

Incontro con Stefano Costantino


Il viso aperto, il sorriso accogliente e comunicativo, la divisa che indossa con orgoglio e un modo appassionato di raccontare il mare e l’arte di navigare, la sua felice scelta di vita. Il capitano di vascello Stefano Costantino dopo aver partecipato a diverse missioni internazionali, svolto innumerevoli incarichi a bordo tra cui quello di comandante in seconda della Portaerei Cavour e comandato due moderne unità navali, nel 2018 è stato nominato comandante della Nave scuola Amerigo Vespucci. Imbarcarsi di nuovo sul veliero più famoso del mondo dove, come tutti gli allievi dell’Accademia navale di Livorno, aveva vissuto il suo “Battesimo del mare” è stata un’avventura emozionante. Se come allievo, oltre l’esperienza addestrativa, aveva imparato che cosa significa essere marinai e parte integrante di un equipaggio al servizio del proprio Paese e della comunità internazionale, anche come comandante, dice Stefano, ha continuato a imparare tanto. La conferma di quanto sia importante ascoltare, perché per motivare i giovani è necessario conoscere la loro prospettiva. Lavorare sempre di anticipo e quindi prevenire, perché è più facile condurre avendo a disposizione maggiore “acqua di manovra”. Percepire quanto prima da dove sta montando il vento per mitigare i rischi e continuare a veleggiare sicuri. Conoscere bene le regole, anche quelle non scritte, ma saperle adattare perché le variabili sono tante: in mare, come nella vita, non basta il solo colpo di timone per raddrizzare la prora nella direzione giusta. Sapere quando segnare il passo, che non è espressione di debolezza, piuttosto consapevolezza dei propri limiti. Infine, conclude Stefano, ha imparato che il mare chiede un animo forte e una grande capacità di fare squadra e che è entusiasmante partire, ma è altrettanto bello tornare, per condividere con i propri cari, la moglie Adriana e i due figli Carolina e Alessandro, le meravigliose esperienze vissute.

Il primo ricordo della tua vita?

Ero piccolo nel salotto di casa insieme a mio nonno gioco con una macchinina rossa che era allora la mia prediletta, seguendo i disegni del pavimento come fosse una pista, sempre diversa e senza fine, con la curiosità di nuovi percorsi oltre quelle mura e attraverso il terrazzo che nelle ore di sole mi sembrava uno spazio infinito.

Chi ha contato di più nella tua formazione?

Sicuramente l’ambiente familiare e in particolare mio nonno che è in tutti i miei ricordi di quando ero bambino, una figura che percepivo rassicurante e di grande saggezza. Fante di Marina nel San Marco durante la seconda guerra mondiale, fu lui per primo a parlarmi di quel mondo che, partendo dalla terra, all’orizzonte si univa al cielo. Conobbi la Marina, l’arte di andare per mare, insieme alla magia di arrivare dal mare attraverso i suoi racconti e dunque devo in gran parte a lui quella che sarebbe stata la mia scelta di vita. Oggi per accedere alla possibilità di concorso in Marina si fa un click sul portale, allora c’era da rispettare tutta una liturgia: si spediva la domanda con raccomandata e si aspettava con trepidazione prima la ricevuta di ritorno, poi il telegramma di convocazione. La tecnologia ha reso tutto più veloce e in apparenza più facile, ma ha eliminato l’idea romantica della lettera che rappresentava la speranza di realizzare ciò che si sognava. Non solo: il tempo necessario perché le cose accadessero dava la possibilità di viverle ancora più intensamente. Oggi i ragazzi sono veloci nell’acquisire dati dal mondo virtuale, tutto è estremamente accelerato, non sono più disposti ad aspettare e così perdono anche la bellezza dell’esperienza di esser portati per mano dagli adulti. Da soli vanno a cercare le informazioni che sempre più spesso arrivano non dall’esperienza vissuta, ma da quella virtualmente condivisa.

Che ruolo ha avuto la scuola?

Nella prima parte della mia vita hanno contato moltissimo la scuola e la parrocchia, un luogo di aggregazione e di incontro dove sono cresciuto anche spiritualmente. La felicità a quel tempo era andare a Villa Borghese. Usciti di casa si cominciava a palleggiare lungo il marciapiede mentre si raggiungeva il mitico Parco dei Daini per quelle partitelle che duravano ore e finivano solo quando si crollava a terra sfiniti, con risultati straordinari di 20 o 30 reti per squadra. Anche la scelta di fare il chierichetto nacque in qualche modo dalla mia passione per il pallone e dal diritto tutto “pagano” di prelazione sul campo di calcetto della parrocchia. Quanto alla scuola i primi due anni delle superiori al liceo scientifico Avogadro furono tanto impegnativi quanto formativi. Ottimi insegnanti di grande capacità didattica ed esperienza che, oltre a darmi molte conoscenze e stimolarmi a un approccio interdisciplinare, che peraltro già desideravo, mi aiutarono ad acquisire un metodo e quindi un’autonomia nell’organizzazione dello studio. Ero appena quindicenne quando mi toccò l’immenso dolore della perdita di mia madre e la mia vita da un giorno all’altro cambiò. Mi trasferii nella casa dei nonni, cambiai quartiere e naturalmente scuola. Lasciavo il mondo che era stato mio fino a quel momento: le strade che si dipanavano attorno a Piazza Fiume, i compagni, la chiesa di Santa Teresa d’Avila, Villa Borghese, il mio liceo e non ultimi il pizzicagnolo e il panettiere delle mie golose merende. Uno strappo forte a quell’età, ma l’affetto dei miei nonni e le basi rigorose che avevo avuto mi aiutarono a superare quel momento tanto difficile e a continuare felicemente gli studi.

E arriva il tempo dell’Accademia navale di Livorno.

Era la prima volta che andavo a vivere lontano ma più forte della nostalgia, che pure a tratti provavo, furono l’amore per il mare e la curiosità per il nuovo. Una curiosità in senso positivo, il desiderio di andare sempre oltre, di non fermarsi a ciò che si sa o a ciò che si vede. Ulisse con il suo talento trainante appartiene a tutte le generazioni e a tutti gli uomini del mondo. Sentivo da lontano la presenza rassicurante di mio nonno. Preferivo le telefonate e quando possibile le sue visite, ma lui insisteva a scrivermi lettere. Solo più tardi, nella commozione di una lettura ritrovata, avrei compreso il significato profondo di quella scelta. L’entusiasmo e la determinazione che accompagnarono il mio ingresso in Accademia resero più facile familiarizzare con una realtà del tutto nuova e così lontana dalle mie precedenti esperienze. Perché entrare a far parte di una collettività significa essere disponibile a conoscersi, imparare a interagire, condividere le esperienze, sentirsi parte di un insieme, rispettare le diversità perché ognuno arriva con la sua storia. Furono mesi di studio intenso di molte discipline con la prospettiva, alla fine del primo anno di Accademia, della Campagna d’istruzione su quella meraviglia che è la Nave scuola Amerigo Vespucci, per quel “Battesimo del mare” che è il traguardo sognato da tutti gli allievi. Perché è chiaro fin dall’inizio che il mare chiede un percorso formativo e culturale, che bisogna maturare le esperienze, imparare a gestire le situazioni complesse e ad assumersi le proprie responsabilità. Il mare occorre conoscerlo, niente può essere lasciato all’improvvisazione.

Era il 1962 quando nel Mediterraneo si incontrarono la portaerei americana Uss Indipendence e la Nave Vespucci. Dalla nave statunitense lampeggiò il segnalatore per chiedere: «Chi siete?». La risposta fu: «Nave scuola Amerigo Vespucci della Marina Militare italiana». Dopo qualche minuto la Indipendence aggiunse: «Siete la nave più bella del mondo».

Sì, è la nave più bella del mondo. A progettarla fu il tenentecolonnello Francesco Rotundi, gran lettore di Salgari, che si ispirò a un antico veliero: le due fasce bianche sui fianchi richiamano le linee di cannoni dei vascelli ottocenteschi. Lunga poco più di 100 metri e larga 15,5, questa nave a vela con motore ha tre alberi verticali più il bompresso sporgente a prora che è in pratica un quarto albero, e fu varata nel febbraio del 1931. A prora si trova la polena che rappresenta in bronzo dorato Amerigo Vespucci, il grande navigatore da cui prese il nome l’America, mentre caratteristici sono i magnifici fregi di prora e l’arabesco di poppa ricoperti di foglia in oro zecchino. E poi tanto prezioso legno ovunque: mogano, frassino, rovere, teak, noce e legno santo per le attrezzature marinaresche. Oltre a rappresentare da quasi 90 anni la Marina militare e l’Italia nel mondo, la Nave scuola Vespucci è da sempre impegnata nelle campagne d’istruzione con una specifica missione: forgiare nell’animo e nel fisico i futuri ufficiali di Marina che, attraverso la tradizionale navigazione a vela, in tempi di tecnologia preponderante, temprano il proprio carattere e apprendono il valore assoluto dell’essere parte di un unico equipaggio.

Come ricordavo prima, tu hai vissuto un’esperienza bellissima e rara, imbarcato sulla nave Vespucci come allievo e molti anni dopo come comandante. Che ricordi hai della tua campagna d’istruzione?

L’imbarco sulla Nave scuola, con il corredo di emozioni e di attesa che questo comporta, è vissuta da tutti gli allievi per quello che è: una delle esperienze più significative del loro percorso in Marina e quindi della loro vita. La prima navigazione prolungata in alto mare, il cielo stellato, il chiarore che avanza, le onde battenti che fanno vibrare la chiglia, la maestosità del mare rappresentano sensazioni uniche che i futuri ufficiali vivono a bordo di nave Vespucci. A partire da “Sveglia equipaggio” sono importanti tutte le attività scandite dai fischi del nostromo e dalla campana al centro nave: l’assemblea per le disposizioni della giornata, le lezioni di scienze nautiche con discipline quali navigazione, astronomia nautica, oceanografia, le attività didattiche e operative, la vedetta sui tre lati della nave perché il posto a prua è riservato al personale nocchiere, i turni di guardia, la pulizia dei locali, l’osservazione del cielo con il sestante per imparare a navigare osservando la posizione delle stelle e del sole. Ma il momento più emozionante è la cosiddetta “alberata”. Tutti gli Allievi agli ordini del nostromo devono salire a riva, che nel gergo marinaresco significa risalire l’albero lungo le sartie per poi andare sui pennoni della nave e aprire gli oltre 2.000 mq di vele o serrarle quando necessario. Sul piazzale dell’Accademia c’è un brigantino interrato dove nei mesi precedenti gli allievi si addestrano sui pennoni, ma a bordo è diverso. Salendo sugli alberi si sostanzia quel rapporto quasi simbiotico col veliero. Ben vincolati e quindi in assoluta sicurezza, con il viso al vento, si vede dall’alto la nave mentre si scopre come sia ancor più lontano l’orizzonte osservato da quell’altezza. È inevitabile sottrarre qualche momento al lavoro per guardarsi attorno e godere di tutta quella bellezza. La mia esperienza da allievo fu straordinaria anche per merito del nostro comandante nella campagna d’istruzione del 1991, il capitano di vascello Mario Tumiati. Posato, sereno, sapiente interprete del suo ruolo e rispettoso del mare e delle persone, fu per noi una guida estremamente importante. Lo seguivo quando ci parlava senza perdere una battuta, cercando di far mio tutto quello che lui ci dava. Ricordo che prima di arrivare in un porto estero storicamente legato al mondo musulmano ci parlò del rispetto delle culture altrui. Nella diversità c’è ricchezza, diceva. A lui devo grandi lezioni di mare e di vita.

E quando ti imbarcasti sulla nave Vespucci come comandante?

L’emozione fu forse ancora più forte. Dopo 27 anni di nuovo il Vespucci.

Ti interrompo, perché il Vespucci?

In Marina i nomi della navi vengono declinati al maschile. Si tratta anche in questo caso di una tradizione, dal momento che a partire dal periodo velico i nomi delle unità navali venivano anticipati dal termine “Legno” che era sinonimo di nave quando queste non erano ancora di ferro.

Il mondo marinaresco è ricco di tradizioni e di curiosità perché è ricco di tanta storia. Ci descrivi la bandiera della Marina militare?

La bandiera navale issata a riva delle navi e di tutti i presidi della Forza armata è costituita dal tricolore italiano, che reca al centro sul fondo bianco l’emblema araldico della Marina militare rappresentante gli stemmi delle Repubbliche marinare — Venezia, Pisa, Genova, Amalfi — sormontati da una corona turrita e rostrata, emblema di onore e valore che il Senato romano conferiva ai conquistatori di terre d’oltremare ovvero a chi compiva imprese navali. Per tornare alla mia esperienza di comandante mi piace ricordare un piccolo episodio a testimonianza di quanto il passato e la tradizione abbiano un grande valore nella vita di un marinaio. Per quel senso di evidente continuità che la mia designazione al comando del Vespucci mi aveva dato, nei giorni precedenti la mia partenza per raggiungere la nave in sosta nel porto di Napoli, scesi in cantina a recuperare una “veterana” valigia d’ordinanza, uno dei primi modelli rigidi e con le ruote. Avevo dimenticato che dentro erano custodite le lettere che decenni addietro mi aveva scritto mio nonno. Ricordo che cominciai subito a rileggerle e nel ritrovare la sua voce dopo tanti anni lo ringraziai in cuor mio di aver preferito allora scrivermi piuttosto che sentirmi soltanto al telefono. Fu un momento di grande commozione che si unì alla percezione della responsabilità che mi attendeva: quella di comandante di un equipaggio, come già in passato ero stato, ma questa volta di una Nave scuola e dunque con il compito di accompagnare i giovani nella scoperta di cosa sia essere marinaio. Avevo 46 anni quando presi il comando della “Signora dei mari” e di colpo realizzai che avrei dovuto dare continuità all’opera di quella lunga e importante lista di oltre 100 comandanti, tra il cui capitano di vascello Tumiati: contribuire alla formazione per mare dei comandanti di domani. Fu sufficiente imbarcare di nuovo, proprio con quella valigia che avevo recuperato tra i miei ricordi, toccare i legni di bordo, sentire l’odore tipico delle cime e delle manovre, scoprire che tutto era al suo posto come quando ero stato a bordo da allievo, perché l’entusiasmo del nuovo comando fosse subito accompagnato da quel vigore giovane che aveva caratterizzato ogni momento della mia prima campagna. Da allievo si impara certo, ma anche da comandante si riscopre la magia di un’esperienza unica dove i giovani allievi maturano man mano una propria identità, rafforzata dalle sfide e dall’addestramento che affrontano insieme. Una maturità corale che trova proprio a bordo del Vespucci emblematica espressione, a conclusione dei tre mesi di addestramento, nella scelta del nome del corso, del loro motto e della loro bandiera. Un evento significativo a consolidamento di quel senso di unione e di fratellanza che accompagnerà per sempre gli allievi ufficiali che hanno imparato a far propri valori fondanti quali fedeltà, disciplina, senso del dovere e solidarietà. Il mare tempra e unisce gli animi nell’affrontare le difficoltà. Soffrire, farsi coraggio, andare avanti con tenacia sono passaggi necessari per raggiungere la consapevolezza della propria forza e dei propri limiti. Arrendersi è facile e in qualche momento quasi un sollievo, un riposo, mentre rialzarsi e persistere richiede sforzo e determinazione. Non arretrare mai di fronte alle difficoltà, lo sanno bene gli allievi che imparano a far proprio il motto di nave Vespucci: «Non chi comincia ma quel che persevera»!

Tra i valori fondanti hai parlato di tradizione e solidarietà.

Sì, è un aspetto che gli allievi imparano a vivere come un dovere inderogabile fin dall’inizio della vita in Accademia. Sul Vespucci, come del resto in Accademia navale, esiste una figura importante, quella degli “inquadratori”, allievi scelti dei corsi precedenti, con il grado di aspiranti guardiamarina e guardiamarina, che rappresentano per giovani del primo anno il riferimento e l’esempio anagraficamente più vicino di cosa significhi “aver fatto il Vespucci”. Una sorta di sistema comunicante che permette la trasmissione del sapere, delle esperienze e delle tradizioni e che regala, a chi inizia, quella marcia in più quanto mai necessaria per affrontare con il piglio giusto una vita legata al mare. Perché la solidarietà accompagna chi va per mare fin dagli albori della civiltà.

Quale è l’insegnamento più importante che hai ricavato dall’andare per mare?

«Buon vento e mare calmo» è l’augurio che si scambiano gli uomini di mare. Con passione e coraggio tendere sempre alla meta, nella speranza di avere un vento favorevole che gonfia le vele al largo e conduce verso il porto al termine della propria missione. Perché andar per mare significa anche vivere intensamente la vita.

di Francesca Romana de’ Angelis