Stefan Zweig e il superfluo nei romanzi

La felicità di cancellare

Nicolo_5_x.jpg
05 giugno 2020

È un dibattito antico quello sul superfluo. Vi convergono concezione della vita, istanze etiche, principi morali, stile personale. Anche nel mondo della cultura la discussione, di secolo in secolo, sul superfluo è stata animata, nonché caratterizzata da valutazioni differenti, talora di segno opposto. Mentre William Shakespeare affermava che «il superfluo causa i capelli bianchi, mentre chi ha solo il necessario vive più a lungo», George Bernard Shaw confessava di poter fare a meno di tutto ma non del superfluo. Sulla stessa lunghezza d’onda, e non poteva essere altrimenti, si pone l’Immaginifico, ovvero quel Gabriele D’Annunzio che esclamava: «Il superfluo mi è necessario come il respir». Dal canto suo Pablo Picasso dichiarava: «L’arte è l’eliminazione del superfluo».

Questa sentenza sembra specchiarsi, con manifesta esemplarità, nelle brevi ma densissime pagine contenute in uno dei capolavori dello scrittore austriaco, naturalizzato britannico, Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (1941), un’opera illuminante che si configura come un’elegia struggente di un’Europa che va gradualmente piegandosi sotto il tallone dei totalitarismi, lesivi dei valori più alti della dignità, della libertà e della pace.

La particolarità di queste pagine consiste nel “coraggio” di Zweig di dare voce — ovviamente con il signorile garbo, non solo umano ma anche stilistico che lo contraddistingueva — a quelle riserve e a quelle perplessità che possono essere nutrite, di fronte ai nomi più illustri e venerati della letteratura, anche dal lettore comune: ovvero da quel lettore, come scrisse Virginia Woolf nell’opera appunto intitolata Il lettore comune, che vorrebbe esprimere la sua opinione (spesso penetrante) su un libro famoso, ma poi se la tiene per sé, dando per scontato che il suo parere, soprattutto se non è del tutto elogiativo di un testo consacrato dalla critica, non sarà mai preso in considerazione.

Nel definirsi «impaziente e passionale», Zweig si dice contrario ad ogni perplessità e ad ogni esagerazione, «a tutto ciò che è superfluo e che diventa un ostacolo in un romanzo». «Tutto ciò — scrive — mi irrita profondamente». Quindi rileva: «Solo un libro capace di mantenere lo stesso livello pagina dopo pagina trascinandomi di un fiato fino all’ultima riga, può appagarmi in pieno». Nel proseguire la sua filippica, lo scrittore rincara la dose: «Nove libri su dieci di quelli che mi capitano tra le mani mi sembrano un po’ troppo appesantiti da descrizioni superflue, dialoghi prolissi e inutili personaggi di contorno, così che mi appaiono troppo poco avvincenti, poco vivaci».

Ecco poi che arriva la sorprendente stoccata che conferisce un acuto a questa lucida e severa disamina. «Persino nei più celebri capolavori classici mi disturbano i numerosi passaggi stentati e farraginosi, tanto che una volta proposi a un editore l’audace progetto di ripubblicare tutta la letteratura mondiale, da Omero alla Montagna incantata, passando per Balzac e Dostoevskij, in un collana che offrisse versioni rivedute e sfrondate di tutto quanto fosse individualmente superfluo, in modo che tali opere, il cui contenuto è indubbiamente senza tempo, potessero tornare a vivere e parlare anche alla nostra epoca».

Lo sguardo critico di Zweig allora, per amore di coerenza, viene rivolto a sé stesso, e al processo da lui seguito nello scrivere un’opera. Il criterio di selezione è concepito come essenziale e prioritario. «Mi libero di ogni zavorra, e asciugo l’architettura interna. Mentre quasi tutti gli scrittori — osserva — non riescono a tacere tutto quello che sanno e, quasi fossero innamorati di ogni loro riga ben riuscita, tentano di apparire più vasti e profondi di quanto siano in realtà, io invece ho l’ambizione di conoscere sempre molto di più di quanto non appaia dal di fuori Questo processo di condensazione si ripete per una prima, una seconda e per una terza volta sulle bozze a stampa, trasformando alla fine in una divertente caccia all’ultima frase o parola» la cui essenza, senza nulla togliere alla precisione, potrebbe rendere più incisivo il ritmo. Nel mio lavoro — sottolinea Zweig — l’esperienza più entusiasmante si vive quando si riesce a cancellare, a eliminare qualcosa». E lo scrittore, cedendo per un attimo a una vena intimista, ricorda che una volta, dopo che si era alzato con aria particolarmente soddisfatta dalla scrivania, sua moglie gli disse che di sicuro doveva essergli riuscito molto bene qualcosa. Allora con orgoglio le risposi: «Sì, sono riuscito a eliminare un intero periodo e a rendere così il tutto molto più fluido».

Nel ribadire dunque la volontà di ghermire il nucleo essenziale bandendo «pause superflue e rumori di fondo», Zweig scrive: «L’unica arte che so per certo di possedere è quella della rinuncia, poiché non mi lamento mai se di mille pagine scritte ottocento finiscono nel cestino e solo duecento sopravvivono come essenza distillata».

di Gabriele Nicolò