Cinquantesimo della morte di Edward Morgan Forster

L’umano e l’umanità oltre la Macchina

Anthony Hopkins ed Emma Thompson nell’omonimo film tratto dal romanzo «Casa Howard»
09 giugno 2020

Fu inteso come un semplice divertissement il racconto di Edward Morgan Forster La macchina si ferma, quando fu pubblicato per la prima volta, nel 1909, sulla «Oxford and Cambridge Review». I critici del tempo rimasero sorpresi e spiazzati dalla scelta operata dallo scrittore inglese (di cui il 7 giugno ricorre il cinquantesimo anniversario della morte) conosciuto e apprezzato in virtù di una narrativa concentrata in particolare sulla lucida e penetrante analisi dell’animo umano e dei suoi più remoti recessi. I suoi capolavori, da Casa Howard (1910) a Passaggio in India (1924), avrebbero visto la luce successivamente, ma già le sue prime prove letterarie avevano contribuito a tracciare il profilo di uno scrittore votato allo scandaglio dell’interiorità concepita come epifanico microcosmo di uno scenario più ampio in cui convergono istanze etiche e urgenze sociali. In realtà allora la critica si dimostrò tanto miope quanto lungimirante si rivelò Forster: nessun divertissement, dunque. Anche in questa circostanza, lo scrittore era stato serio, molto serio, nel denunciare la crescente disumanizzazione del tessuto sociale determinata dal soverchiante dominio della tecnologia. In un passo del racconto si legge: «Abbiamo creato la Macchina perché eseguisse il nostro volere, ma noi ora non riusciamo a farle eseguire il nostro volere. Ci ha privato del senso dello spazio e del senso del tatto, ha offuscato ogni rapporto umano e ha ridotto l’amore a un atto carnale, ha paralizzato i nostri corpi e la nostra volontà, e adesso ci costringe a venerarla».

Un aspetto poco conosciuto, se non ignorato, di Forster s’impone invece per la sua valenza profetica. Aveva infatti intuito — e allora la tecnologia non era così sofisticata come oggi — che la tecnica, se non è disciplinata in funzione del progresso, rischia di modificare in peggio le dinamiche di una quotidianità che si vorrebbe nutrita di autentici valori umani e spirituali. L’alienazione di cui parla Forster nel racconto appariva ai suoi contemporanei come un termine astruso, bislacco: adesso tale termine è moneta corrente. Forster con questo racconto intendeva opporsi alla tesi sostenuta da Herbert George Welles che ne La guerra dei mondi, ne La Macchina del Tempo e nella Moderna Utopia aveva descritto la nascita e lo sviluppo di uno stato mondiale perfetto perché governato dalla tecnologia.

In assenza della religione e di qualsivoglia ideologia, la Macchina, nel racconto, è venerata come una sorta di divinità. Le persone vivono in un mondo sotterraneo e si spostano raramente perché la Macchina ha reso ogni posto uguale all’altro e di conseguenza non vale la pena viaggiare perché, una volta soppressa la varietà, l’omologazione che la sostituisce non ha attrattiva. Dalla massa informe e supina spicca e si distingue Kuno, che, novello Ulisse, brama di conoscere il mondo che sta sopra. Aspira dunque a guadagnare la superficie animato dalla consapevolezza che solo abbandonando la città sotterranea sarà possibile ottenere la salvezza. Traguardo questo che s’identifica nel rivendicare il rispetto della dignità della persona e del valore inestimabile — a fronte dell’imperante tecnologia — della sua umanità.

In Forster si consuma una potente sintesi di passato e futuro. Con sagacia profetica seppe scrivere di quest’ultimo; in pagine dense di sentimento seppe volgere lo sguardo a un patrimonio di cultura e di tradizioni destinato a svanire. Non a caso venne denominato the last englishman, definizione ritagliata sulla figura di un letterato impegnato a conservare, con struggente nostalgia, gli echi di un passato la cui eredità rischia di cadere nell’oblio. Eppure non gli mancò la volontà di reclamare il valore di una cultura che sapesse farsi valere, al di là dei limiti del tempo e dello spazio. In un passo di Casa Howard si legge: «Perché l’Inghilterra non ha una grande mitologia? Il nostro folklore non è mai andato al di là della grazia, e le più grandi melodie sulla nostra campagna sono sempre scaturite dalle zampogne della Grecia. L’Inghilterra aspetta ancora il momento supremo della sua letteratura, il grande poeta che le darà una voce, anzi, i mille piccoli poeti le cui voci passeranno nella nostra parlata quotidiana». Sarà la sua stessa narrativa che verrà a costituirsi come luogo mitico in cui l’Inghilterra troverà la sua più alta epifania novecentesca, e lo scrittore diventerà l’emblema per eccellenza di un mito tutto inglese, quello appunto di the last englishman, in cui si specchiano tradizione, il vissuto del presente e fulgide intuizioni di ciò che accadrà.

Come ha acutamente evidenziato il critico letterario Silvano Sabbadini, se James Joyce e Virginia Woolf sono entrati, e «con più rumore di Forster», a far parte del mito, rappresentando rispettivamente «l’avanguardia e la donna scrittore», Forster «sta lì a ricordarci che cosa è il borghese onesto, a testimoniarci che malgrado le bombe e le crudeltà della guerra la vita interiore avrà ancora la sua ricompensa».

Forster si colloca nel solco di una tradizione umanistica che da un lato avverte il venir meno della cosiddetta “sicurezza borghese” e di conseguenza non si sente più autosufficiente; dall’altro essa resta custode di qualcosa d’essenziale, ovvero di quel patrimonio culturale il quale, pur con la sua debolezza, si configura come l’indispensabile baluardo di un’umanità che l’uomo non può permettersi di perdere.

Sulla valutazione della statura letteraria di Forster pesa il giudizio espresso dal celebre critico letterario statunitense Lionel Trilling, il quale si rammaricava che «lo scrittore non aveva mai voluto diventare un grande scritto». «Lo è ma non lo vuole diventare» ribadiva con rammarico.. Quando pubblicò Casa Howard il successo gli arrise senza riserve. Due anni prima (1908) si era imposto all’attenzione generale licenziando alle stampe Camera con vista. Questi due romanzi ne avevano consacrato la fama: era quindi giunto il momento di suggellarla. Ma proprio allora Forster si ritirò in solitudine non cavalcando l’onda della celebrità. Solo nel 1924 avrebbe scritto un altro capolavoro Passaggio in India, elogiato all’unanimità da critica e pubblico. Ma ormai era troppo tardi. Si stavano lentamente spegnendo le luci della ribalta: quelle luci che Forster stesso — come irretito da una cupio dissolvi — aveva contribuito a tenere velate.

di Gabriele Nicolò