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L’umanità al centro del lavoro

Una scena da «In ogni istante» di Nicolas Philibert
08 giugno 2020

Il percorso per diventare infermieri nell’ultimo documentario del francese Nicolas Philibert


Parla del meglio che possiamo produrre, l’ultimo documentario del francese Nicolas Philibert, l’autore di Nel paese dei sordi (1992) e di Essere e avere (2002). Si intitola In ogni istante e racconta la parte più nobile di noi, che è l’amore per il prossimo.

Quella fertile sostanza umana che possiamo esprimere attraverso un mestiere fondamentale, a volte involontariamente spinto nella penombra da uno altrettanto prezioso: quello del medico, che per carità, è di immenso, indiscutibile valore, ma che mai deve far dimenticare il rilievo, il peso, la grandezza della professione di infermiere. Perché è dall’interazione tra queste due importanti competenze che matura il modo migliore di curare i nostri corpi fragili e imperfetti, la nostra vita quando vacilla, trema, rischia di spegnersi nel doloroso attraversare il territorio della malattia.

È un documentario sugli infermieri, dunque, In ogni istante, nato da un’esperienza personale del regista (còlto nel 2016 da un’embolia polmonare) e presentato a Locarno nel 2018. Più precisamente, questo film disponibile dal 1° giugno scorso sulla piattaforma digitale «Wanted Zone», è l’ascolto di tante giovani vite, soprattutto donne, che hanno deciso di incamminarsi su questa difficile strada professionale e hanno iniziato a impegnarsi quotidianamente per farla diventare la loro vita.

È l’osservazione asciutta, essenziale, paziente, senza aggiunta di interviste, senza sottolineature musicali, del loro percorso formativo, professionale e inevitabilmente umano, fatto di memorizzazione delle nozioni, di apprendistato tecnico prima con simulazioni e poi con esperienze sul campo (attraverso tirocini) ma anche di allenamento emotivo per reggere un’esperienza tanto forte, per imparare a dosare bene quella sensibilità che può essere risorsa ma anche vulnerabilità.

I tanti ragazzi di questo documentario diviso in tre parti — teoria, pratica e resoconto — ognuna introdotta da un verso del poeta Yves Bonnefoy, imparano a fare un’iniezione, a sollevare un paziente, a gestire varie emergenze e a lavare perfettamente le mani, operazione che può sembrare banale, ma che testimonia, invece, l’attenzione massima da mettere in ogni piccolo gesto, in ogni minuscolo dettaglio di questo delicato mestiere. Soprattutto memorizzano la lezione, il valore che tutti noi dovremmo sempre fare nostro, di porre al centro la persona: occuparsi al meglio di lei a prescindere dalle sue origini, dalla sua religione, dalla ricchezza o dalla povertà, dalla condizione sociale, dall’età o dal sesso.

E apprendono, questi ragazzi di una luminosa e incoraggiante Francia multiculturale, che «la qualità della cura» viene prima di tutto e che del loro mestiere fanno parte anche concetti come relazione e conforto, espressi mediante un verbale e un non verbale da offrire al malato e ai suoi cari.

Per questo Philibert inquadra anche chi vive la malattia accanto a chi di lui si prende cura, e lo fa con la sua telecamera discreta che non pedina ma aspetta, guarda silenziosa e partecipe, con una capacità notevole di lasciar fiorire la verità sui tanti volti  — dal colore della pelle diverso — che respirano e crescono dentro questo film interamente girato nell’Istituto Croix Saint Simon di Montreuil, a pochi chilometri da Parigi: un coro di giovani voci con le risate iniziali che si increspano poi di una serietà nuova, silenziosa, per l’impatto con un mondo del lavoro esigente e con le dure esperienze legate alla loro faticosa scelta professionale.

Alcuni di loro si abbandonano al pianto, quando, nella terza parte di In ogni istante, raccontano ai tutor quanto vissuto in reparto durante lo stage: il passaggio dalle esercitazioni con i manichini al contatto coi pazienti veri, l’incontro con colleghi esperti esigenti, a volte impazienti, non sempre accoglienti, magari perché travolti loro stessi da enormi carichi di lavoro, e poi l’impatto col dolore e soprattutto quello stordente con la morte.

E il diverso, personale modo di affrontare la prova, di reagire a questa impegnativa palestra, ci ricorda che dentro ogni professionista, potenziale o affermato che sia, c’è sempre una persona con una sua capacità di reazione e una sua storia alle spalle, legata ad altre storie, in questo documentario che somiglia a una canzone di speranza per il futuro, che toglie un po’ di cupezza all’immagine che il presente ci porta a costruire del domani, dal piacere di mettere l’umanità al centro del suo lavoro e di offrire un servizio enorme alla comunità, assecondando il desiderio sano, prezioso, di sentirsi utile al prossimo, senza la necessità di avere il viso illuminato da riflettori. 

di Edoardo Zaccagnini