Cent’anni dalla morte del sociologo Max Weber

L’etica e il leader carismatico

Weber subì l’influenza di Marxma al contempo ne prese le distanze
13 giugno 2020

La politica è scontro, non è morale. Di conseguenza chi si vuole occupare di politica deve mettere in preventivo che essa è competizione e che ad essa è inerente una dimensione agonica che stabilisce il dichiarato obiettivo della sconfitta dell’avversario. Ma questa dinamica presuppone un agire sfacciato, senza scrupoli, che bandisca ogni forma di rispetto nei riguardi dell’altro? A tale fondamentale interrogativo Max Weber (di cui il 14 giugno ricorre il centenario della morte) detta una chiara e consapevole risposta: la vittoria in politica, una vittoria completa e autentica, si può ottenere solo attraverso la salvaguardia di un codice etico che contempli la piena conformità alle leggi, la quale, sua volta, è garanzia della tutela dei valori essenziali a cui si ispira e di cui si nutre il tessuto sociale e civile. La dimensione etica, dunque, assurge a inamovibile paradigma in un contesto, come quello della politica, dove generalmente gli attori della scena tendono a volgere le spalle alla disponibilità all’ascolto e alla volontà di dialogo.

Considerato uno dei padri fondatori della sociologia moderna, Weber concentrò gran parte della sua ricerca sullo sviluppo del capitalismo. In tal senso subì l’influenza di Karl Marx, di cui al contempo criticò alcuni aspetti del pensiero, come la concezione materialistica della storia. Weber, rispetto a Marx, attribuiva minore importanza al conflitto di classe poiché riteneva che le idee e i valori influiscono sulla società allo stesso modo delle condizioni economiche. Weber riconosceva il carattere del capitalismo moderno nel razionalismo economico, concepito come parte nevralgica di un più generale processo di razionalizzazione che comporta la pragmatica organizzazione dell’impresa, la tendenza al profitto, la stesura di bilanci preventivi e consultivi e, al tempo stesso, l’impiego del lavoro libero e l’esistenza di un libero mercato. Accanto a questi elementi il sociologo e filosofo tedesco indicava un fattore definibile come lo “spirito del capitalismo”, cioè una specifica mentalità economica che affonderebbe le radici nel terreno della religione.

In una delle sue opere più note, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905) Weber sostiene che la religione sia una delle ragioni per cui le culture dell’Occidente e dell’Oriente si sono sviluppate in maniera diversa, e sottolineava l’importanza di alcune caratteristiche del protestantesimo ascetico che, secondo il sociologo, contribuirono alla nascita del capitalismo, della burocrazia e dello Stat razionale e legale nei Paesi occidentali.

Nel pensiero di Weber, in uno scenario legato alle istituzioni chiamate a favorire il progresso della società, occupa un posto importante la riflessione sul valore del Parlamento. In netta opposizione al cancelliere Otto von Bismarck, reo di aver trasformato il Parlamento in un luogo «esclusivamente burocratico», il sociologo sosteneva che esso deve essere un laboratorio dove plasmare la democrazia. È in tale contesto che si formano gli uomini migliori. Chi governa fa parte di una minoranza ristrettissima e tale minoranza non può che nascere in seno al Parlamento, il quale, al contempo, è chiamato a favorire, in modo saggio e avveduto, l’emergere del leader carismatico, concepito come sintesi di una élite composta, appunto, dagli ingegni più brillanti. Ma come Weber evidenzia nell’opera Parlamento e governo (1917), il leader carismatico potrebbe farsi irretire da derive autoritarie. Qualora ciò accadesse, sarà il Parlamento stesso a svolgere una salutare attività di controllo opponendo anzitutto, in questo esercizio di vigilanza, il valore della legalità costituzionale che nessuno violare. Al Parlamento dunque Weber affida il compito di agire da filtro tra il governo e la massa, e quindi gli conferisce una funzione di alta valenza strategica nella prospettiva di un vivere civile ben regolato e basato su solidi equilibri.

Un aspetto conosciuto da pochi e che eppure riveste un rilevante significato riguarda l’importanza accordata da Weber al giornalismo. In una conferenza tenuta a Monaco nel 1918, il sociologo, con un eloquio fermo e perentorio sottolineava che «non tutti hanno ben chiaro che scrivere un buon articolo comporta un impegno intellettuale pari a quello che viene richiesto a un accademico che si cimenti nel conseguimento di un grande obiettivo». Come si dimentica — evidenziava Weber — che il giornalista si trova spesso a fare un articolo in fretta e furia, in condizioni non sempre favorevoli, mentre lo studioso e il ricercatore generalmente dispongono di tempi lunghi e di luoghi consoni alle esigenze dell’attività intellettuale. Si trascura poi il fatto che la responsabilità del giornalista nei riguardi della società è «molto più grande di quella rivestita dallo studioso». La conferenza ebbe luogo poco dopo la fine della prima guerra mondiale, quando l’imperativo comune era quello di ricostruire, su più fronti, e con ben articolate priorità, ciò che era stato distrutto. In questo prospettiva l’elogio tessuto da Weber nei riguardi del giornalismo e del giornalista si carica di un valore ancor più pregnante, avendo ben compreso il sociologo il prezioso e fattivo contributo che possono dare, per il bene e per il progresso della società, anche la penna e la mano di chi la muove.

di Gabriele Nicolò