Dialoghi impossibili sulla fede

Il potere dell'immaginazione

Jan Vermeer, «Allegoria della Fede cattolica» (1671-1674)
10 giugno 2020

Cinque anni fa moriva padre Michael Paul Gallagher, professore di teologia fondamentale alla Gregoriana


Pochi purtroppo sono i predicatori che pensano a destare la fede nei loro uditori per mezzo dell’immaginazione. Fra questi pochi, più rari ancora quanti percorrono la via della sobrietà. Michael Paul Gallagher ne era uno.

La prima volta che lo udii predicare esercizi spirituali ero licenziando di teologia fondamentale alla Gregoriana. Avevo già sentito Gallagher a lungo in aula mentre ci insegnava ad allargare i nostri orizzonti teologici a partire dall’ateismo o dal rapporto fra fede e cultura(e). Quello stesso semestre dove venne a predicare il ritiro quaresimale al Collegio San  Roberto Bellarmino mi faceva entrare ogni settimana con pazienza ed esigenza nei meandri del pensiero di John Henry Newman sul nesso fra fede e ragione. Conoscevo già la cultura immensa, l’umorismo incisivo e il brio oratorio del professore irlandese. Ma quel sabato mattina mentre ci dava spunti di preghiera secondo il modo ignaziano, la sua sobrietà mi colpì. Ci proponeva di porre la Quaresima sulle orme del profeta Giona. Ce ne ricordò a tratti la storia notissima, poi ci diede un breve elenco di domande da meditare — a scelta — a partire da Giona. Mi soffermai con le prime due che non ho più scordato: «In base alla storia di Giona, da cosa stai fuggendo? E verso cosa corri?». Domande incisive, essenziali. Come la Parola di Dio, insomma, «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio… fino alle giunture e alle midolla, [che] discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebrei 4,  12). Nacque in me un pensiero teologico: non occorre sempre un fuoco d’artificio retorico per toccare l’immaginazione e suggerire a qualcuno di esaminarsi la coscienza. Due domande analogiche ma sobrie bastavano a riportare alle scelte di vita, al luogo della chiamata che è anche quello della lotta.

Padre Gallagher era giunto a insegnare la teologia tramite la docenza della letteratura. È un luogo comune che gli irlandesi hanno una grande dote culturale per raccontare le storie e una profonda affinità con le lettere. Nel caso di Gallagher era verissimo. Il suo dottorato a Oxford sul predicatore e poeta gallese George Herbert l’aveva portato a insegnare la letteratura per vent’anni all’University College a Dublino. Consapevole (prima di molti altri) del nichilismo culturale e teologico verso il quale scivolavano i suoi studenti alla fine degli anni Settanta, aveva inventato un trucco per portarli oltre, grazie all’immaginazione. A un certo punto durante il corso era solito scrivere sulla lavagna tre onomatopee: «Ha! Aha! Ah!». Con un sorriso birichino si girava verso gli studenti e spiegava che i tre suoni simboleggiavano tre atteggiamenti fondamentali, non solo verso la letteratura, ma pure verso la vita. «Ha!» era il grido spavaldo di chi sa già tutto. «Aha!» significava i tanti momenti di scoperta che gli studenti avrebbero magari avuto all’università: spunti, intuizioni, pensieri nuovi, orizzonti allargati... Ma l’ultimo verso veniva emesso con un ovvio piacere: «Aaaaaah!!!»: evocava quel meravigliarsi felice dove l’incontro con qualcosa o qualcuno avrebbe finalmente aperto una breccia nella mente e nel cuore, togliendo la superbia e riaprendo allo spirito della gioia.

Gallagher era attento a non predicare Cristo in aula alla statale ma sapeva che il meravigliarsi e la gioia potevano portare ad aprirsi a un Altro e a fidarsi di lui. Laddove — secondo la battuta di Oscar Wilde — il cinico è colui che «conosce il prezzo di tutto e il valore di nulla», Gallagher rimandava spesso a questa tesi metaforica della poetessa statunitense Emily Dickinson: «La lenta miccia del possibile è accesa dall’immaginazione». La tesi dell’immaginazione come porta del possibile valeva non solo per il nostro stendere poemi in studio, fare scoperte scientifiche in laboratorio o reinterpretare testi classici in aula: ci suggeriva anche che le parole e i gesti di Gesù avrebbero potuto interrogare la nostra vita concreta perché andassimo a esplorare la realtà e a godercela. «Quando le porte dell’immaginazione si schiudono a qualcosa di simile alla sensibilità personale, siamo pronti per Dio», scriveva Gallagher. Come Newman, non era un pensatore sistematico. I suoi libri erano snelli, incisivi, aforistici, suggestivi. Era un relatore e un predicatore ricercato perché i suoi racconti e le sue domande scavavano negli altri il desiderio di prendere il largo. In due delle sue opere più rappresentative immaginò dialoghi e monologhi per provocare i lettori a uscire dalla depressione o dall’autocompiacimento.

Così La poesia umana della fede fece conversare alcune coppie insolite d’interlocutori: Jane Austen e D.H. Lawrence, Flannery O’Connor e George Eliot, William Shakespeare e Oscar Romero, Karl Rahner e Rainer Maria Rilke, persino Thérèse de Lisieux e Friedrich Nietzsche. Questi dialoghi immaginifici miravano, con la quiete o con voci alzate, a portare ogni lettore più avanti. Gallagher era preoccupato per gli atei e gli indifferenti in crescita. Ma era altrettanto tormentato per i cristiani tiepidi e superficiali la cui fede più «nozionale» che «reale» (per riprendere una distinzione newmaniana che gli piaceva tanto) avrebbe senz’altro fatto una brutta fine.

In questo senso, l’ultimo dialogo de La poesia umana della fede, fra un’anima e Gesù, è un bellissimo tentativo teologico di portare l’egocentrismo postmoderno attraverso la fragilità e la limitatezza a un incontro ardente con la misericordia incarnata e realista di Dio. L’immaginazione letteraria e spirituale è veramente qui a servizio della fede; il suo ruolo teologico emerge quindi come imprescindibile. «Queste pagine... sono tentativi di aprire una visione, indicatori per lo stupore, percorsi verso la speranza, l’amore e la fede, forse in quest’ordine. La fede stessa è un modo che Dio ci ha dato per immaginare la nostra esistenza, non una verità fredda, facilmente catturata dai concetti. La mia convinzione è che gli scrittori dell’immaginazione, come i profeti nella Bibbia, possono rendere più profonda la nostra esistenza».

In Mappe della fede. Dieci grandi esploratori cristiani, Gallagher scelse la tecnica del monologo. Dopo un ritratto teologico di ogni «esploratore» immaginava ciò che avrebbe potuto dire oggi sulla propria fede. Non per scivolare nel protagonismo che scatena fiumane di tweet esibizionisti, anzi! Introduceva gentilmente all’interiorità — altra dote newmaniana che gli stava a cuore. Nell’intimità di un discorso onesto, umile, un credente poteva anche schiudere le sue lotte con Dio e con la non credenza. Non per imporre a tutti un’unica strada uniformata bensì per offrire delle «mappe della fede» che avrebbero consentito ad altri di esplorare le contrade del credere. Gallagher non citava mai i poeti per estetismo; non elencava i teologi per sfoggiare. Si adoperava con calma e vigore perché chiunque lo avesse incrociato proseguisse con una fede più viva e con un’immaginazione più realista, nel contempo con più domande e più fiducia. Non poteva bastare la mera superficie quando si giocava la salvezza.

Sobrietà e sovrabbondanza sono due tipi di strade dell’immaginazione religiosa tracciate in modo rispettivo e paradigmatico dalle parabole di Gesù e dall’Apocalisse. All’incrocio della Rivelazione divina con la ricchezza delle culture, padre  Gallagher ne seppe trarre una teologia dell’immaginazione. Sapeva che i motivi del credere o meno nel Vangelo non stanno tanto negli argomenti logici bensì nelle situazioni esistenziali, nei pregiudizi, a livello preconcettuale. Oggi il nostro «rispondere a chiunque [ci] domandi ragione della speranza che è in [noi]» (1 Pietro  3,  15) dovrebbe magari avviarsi come Gallagher dal chiedere «con dolcezza e rispetto» (1 Pietro  3,  16): «Da cosa stai fuggendo? E verso cosa corri?». Con Giona e con Cristo, Gallagher ci ha aperto una rotta dalla somma libertà e dalla fiducia gioiosa.

di Nicolas Steeves