Nell’ultimo album di Bob Dylan «Rough and Rowdy Ways»

Il filosofo pirata con un indirizzo in tasca

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22 giugno 2020

Immaginiamo: un uomo si sveglia in una stanza buia, non sa come ci è arrivato, non ricorda niente, ignora da dove vengano i vestiti che ha addosso e non ha idea di dove si trovi. Fuori è tutto scuro, non riconosce il luogo e ha perso il senso della distanza. Potrebbe essere vicino a casa oppure lontano, molto lontano, non solo in un’altra città, in un altro paese, al di là dell’oceano, ma addirittura su un altro pianeta, in un’altra parte dell’universo. Non gli fa differenza, perché vicino o lontano, prima e dopo, sono parole che non hanno più significato. Si fruga nelle tasche di una giacca che non è la sua e trova un biglietto con il nome di una città: Key West, Florida. Ora, da quel luogo sconosciuto in cui è capitato, il suo unico compito è raggiungere Key West, e non sa da dove cominciare.

Key West (Philosopher Pirate) è la canzone che chiude il primo cd di Rough and Rowdy Ways, l’album di Bob Dylan uscito il 19 giugno 2020, quasi doppio. Il primo cd contiene nove canzoni; il secondo solo una, Murder Most Foul, ma che dura diciassette minuti. La data di pubblicazione non è scelta a caso. Il 19 giugno 1865, dalla Villa Ashton di Galveston, in Texas, il generale Gordon Granger annunciò che gli schiavi in Texas dovevano considerarsi liberi. Lincoln aveva decretato la fine della schiavitù il 22 settembre del 1862 ma in Texas la notizia non era ancora ufficialmente arrivata (o, se era arrivata, molti avevano fatto finta di niente). Un crescente movimento vorrebbe rendere Juneteenth, come viene chiamato il 19 giugno, una vacanza federale. Secondo altri, il 19 giugno e non il 4 luglio dovrebbe essere il vero giorno dell’indipendenza.

È impossibile che Dylan non ci abbia pensato. Non dopo otto anni di silenzio come autore, in cui ha pubblicato “solo” tre album (di cui uno triplo) di canzoni tratte dal repertorio di Bing Crosby, Frank Sinatra, Billie Holiday e Tony Bennett, ripensate, riarrangiate e piegate alla sua voce gracchiante e inevitabilmente invecchiata. Un silenzio che infine ha spezzato con Rough and Rowdy Ways il cui titolo, ispirato a un brano di Jimmy Rodgers degli anni Trenta, si potrebbe tradurre con “Modi rozzi e rissosi”. Non c’è molto di rozzo nell’album, e nemmeno di rissoso, se si eccettuano alcuni versi feroci e insieme divertiti (quelli su Freud e Marx all’inferno, ad esempio, uno perché ha osato interpretare i sogni e l’altro per aver brandito un’ascia). Dylan è ormai lontano da ogni velleità di stupire, ma non può evitare che ogni sua mossa susciti meraviglia, soprattutto se a 79 anni e con il suo trentanovesimo disco in studio finisce al primo posto nelle classifiche mondiali.

La storia dell’uomo perduto nell’universo e con un indirizzo in tasca viene da un mio amico scrittore, morto dieci anni fa. Non era riuscito a svilupparla, me l’aveva regalata, e a me è tornata alla mente mentre ascoltavo questo lungo viaggio di un everyman perduto verso una Key West più favolosa che reale. Ma quest’uomo perduto è Dylan o è chiunque abbia la ventura di ascoltare questo disco ad occhi chiusi, al buio e con gli auricolari nelle orecchie?

Partiamo dalla seconda ipotesi. Sono stato io a provare la sensazione di non sapere più dov’ero, al minuto 0:51 dello scarnissimo arrangiamento di Black Rider, e poi di nuovo a ogni fine di strofa: un leggero colpo di percussioni, forse ottenuto battendo il legno della bacchetta sul bordo metallico di un tamburo. Non sembrava provenire da nessun luogo (se lo si togliesse la canzone non cambierebbe, in apparenza), all’inizio pensavo che fosse un rumore esterno, mi sono anche tolto gli auricolari per capire da dove venisse. Forse il mio spaesamento sarebbe finito a Key West? Ma sapevo che la lunghissima canzone del secondo disco, dedicata all’uccisione del presidente Kennedy, faceva ricominciare il viaggio, e questa volta nessuna meta era prevista, nessun riposo.

In Rough and Rowdy Ways ci sono sorprese mescolate ad atti mancati. Dylan non sa sempre piegare la sua voce alle melodie che crea o che prende in prestito — non solo i prestiti dal rhythm and blues degli anni Cinquanta; si coglie anche un’eco della Barcarolle di Jacques Offenbach nel tema di I’ve Made Up Mind to Give Yourself to You. Ma il suono cameristico, minimalista, già sperimentato nelle raccolte del “periodo Sinatra”, qui è perfezionato. C’è la straordinaria litania conclusiva di Murder Most Foul, un’infinita marcia funebre per il presidente ucciso e per l’America uccisa insieme a lui. Ma una canzone come Black Rider, Dylan non l’aveva ancora tentata. Perché l’incerta melodia suona come una melopea dell’Europa orientale che anche un Jacques Brel avrebbe potuto far sua. È la canzone più nuda, più indifesa e più forte dell’intero album. Ed è con quel lontanissimo colpo di tamburo che ci avvisa, ci fa sapere che la nostra guida ci ha portato in un luogo che non riconosciamo.

Ma se fosse invece il contrario? Se l’uomo che si è svegliato nella stanza buia con un indirizzo in tasca fosse proprio Dylan? E come pensa, questo Dylan, di arrivare a Key West? Di salvarsi, in altre parole?

In False Prophet, Dylan afferma deciso di non essere un falso profeta. Dunque siamo noi a dover capire che cos’è un profeta non falso, non in tempi biblici ma oggi. Un profeta ci mostra il presente — non il futuro — annullando le distanze, facendo collassare la storia, parlando dalla posizione dell’angelo e da quella del demone. Non ho detto del diavolo, anche se negli ultimi dischi di Dylan una canzone che puzza di zolfo non manca mai. C’è My Wife’s Hometown in Together through Life, Pay in Blood in Tempest, e anche qui in My Own Version of You un nuovo Dr. Frankenstein batte obitori e monasteri alla ricerca di parti di un corpo che vuole costruire. La “mia versione di te” potrebbe essere la versione di un golem, di una donna, del suo pubblico, del suo ascoltatore ideale. Il candido ritmo in tre quarti non deve ingannare, è la canzone più spietata dell’album, un catalogo di orrori, violenze e schiavitù ricondotte alla guerra di Troia, “ben prima della Prima Crociata”, “ben prima che nascessero Inghilterra e America”.

Ma niente è come sembra. Quando Dylan si domanda: «Mi chiedo: che cosa farebbe Giulio Cesare?» (una presenza ossessiva; c’è anche un lungo blues intitolato Crossing the Rubicon) sta rovesciando la tipica domanda che guida la vita dei reborn Christians (What Would Jesus Do?), ormai ridotta a barzelletta (“Sono un assicuratore che può truffare i suoi assicurati. Che cosa farebbe Gesù? Beh, lui non li trufferebbe, ma cercate di capire la mia posizione”). E quando canta: «Porta tutto a St. Peter, porta tutto a Jerome» (ma potrebbe anche voler dire: “Poni la questione”), si sta riferendo a San Gerolamo traduttore della Bibbia o a Jerome Green, suonatore di maracas al quale Bo Diddley dedicò la canzone Bring It to Jerome? A tutti e due, probabilmente, perché distanze e gerarchie sono state abolite.

Dylan nomina santi, chiese, preghiere e religioni, ma questa volta risparmia le citazioni dalla Bibbia, o almeno le più riconoscibili. Chi domina qui è il demone, lo spirito della terra, del ritmo e dell’ispirazione, quello che Faust cerca di evocare all’inizio del suo dramma senza riuscirci — il primo di molti fallimenti futuri e anche la causa della sua resa al diavolo.

Key West (Philosopher Pirate) è così l’estrema meditazione di Dylan filosofo pirata (perché Key West, ultima isoletta di quella lingua di arcipelago che si estende oltre la punta meridionale della Florida, è stata una base di pirati), il suo ultimo rifugio? Un paradise divine con descrizioni da dépliant turistico? No, sono troppe le canzoni in cui ha delineato una possibile idea di paradiso, da Gates of Eden (1965) a Highlands (1997) fino al “mistico giardino” di Ain’t Talkin’ (2006). Tra questi paradisi, Key West è il più ironico e disilluso. Troppi segnali puntano in un’altra direzione, fin dalla prima strofa che inizia bruscamente con l’assassinio del Presidente McKinley (14 settembre 1901) annunciato da una radio senza fili. Cosa difficile da credere (anche se Marconi iniziò le trasmissioni transatlantiche nel dicembre del 1901), se non si sapesse che “President McKinley” è anche il nome del modello di una radio CB. Key West diventa in Dylan una radio pirata che manda ogni notizia non ufficiale, ogni poesia beat, nonché la musica che il disc jockey Wolfman Jack, invocato in Murder Most Foul, trasmetterà per commemorare la morte di un altro presidente. Non crediate di aver preso Dylan in castagna.

Non è importante sapere se Rough and Rowdy Ways sia più o meno grande degli album che l’hanno preceduto. Fa parte dello stesso progetto di grande poema in frammenti che Dylan persegue fin da Time Out of Mind (1997), si pone allo stesso (inarrivabile) livello. Certo, preferisce la fermezza alla speranza, raccomanda di tenere i piedi ben saldi, perché solo stando a contatto con lo spirito della terra si possono alzare gli occhi al cielo. In un’intervista pubblicata sul «New York Times» del 12 giugno, lo storico Douglas Brinkley chiede a Dylan come mai la musica Gospel che Little Richard alternava ai brani di rock ‘n’ roll non ha avuto il riconoscimento che meritava. Dylan, che all’età di sedici anni aveva dichiarato come sua ambizione quella di seguire Little Richard, risponde che la musica Gospel è la musica della buona novella (delle good news) e in questo momento di good news non ce ne sono.

Non è una sorpresa che il Gospel di Little Richard sia stato trascurato, come non è una sorpresa che Dylan, in dieci canzoni per nulla rozze e per nulla rissose, abbia cercato di ricondurci a una condizione di vita e di mortalità vissuta e sperimentata in tutta la sua pienezza, senza ira, disillusioni o rimpianti. Such is life, such is happiness sospira Dylan in Key West. Così è la vita, così è la felicità, e forse nessun verso gli è mai uscito dalle labbra con la stessa saggezza fatta suono.

di Alessandro Carrera