Una riflessione sullo stato di salute della poesia nel ventunesimo secolo

Il fascino di Cenerentola

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19 giugno 2020

Valerio Magrelli la chiama «la Cenerentola delle librerie»; è bellissima, è destinata a sposare un principe, ma per la maggior parte del suo tempo giace in un angolo polveroso, o viene relegata tra le cose che sono talmente familiari e note da essere diventate invisibili. La Bella (provvisoriamente) addormentata di cui parla Magrelli è la poesia; e forse le “bestie” siamo noi, suggerisce al lettore Uberto Motta nella prefazione al libro La parola e la cosa, saggi sulla resistenza della poesia (Milano, Vita e Pensiero, 2020, pagine 122, euro 13). Le riflessioni e le testimonianze raccolte in questo volume appartengono a voci di autrici e autori di generazioni differenti. Tranne Alfonso Berardinelli, critico e saggista conosciuto anche al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti, si tratta di poeti che rappresentano le più svariate declinazioni del tema “poesia” nella cultura contemporanea. Un relitto del passato destinato «a inabissarsi nella banalità del linguaggio contemporaneo, a farsi sfogo inconsistente di un privato narcisismo», come si legge nella quarta di copertina, o un oltraggio “buono” al comune senso del sapere, un antidoto allo svuotamento progressivo delle parole che ha ancora qualche possibilità di essere un punto di vista privilegiato sul mondo? Il punto di partenza è proprio la contraddizione fra la presunta inutilità o inefficacia o inconsistenza della poesia, e la sua presenza di lunga durata, come forma di accompagnamento del vivere. Anche se «non serve a niente», gli uomini scrivono poesie da oltre quattromila anni, affidando a una parola apparentemente gratuita e immotivata i propri desideri più profondi, le proprie attese e le proprie paure. «La poesia, quella vera, è diversa» è il titolo della prefazione di Motta: diversa, nel senso di lontana mille miglia dalla lingua smorta, standardizzata verso il basso e il banale, appiattita e circoscritta, kitsch e volgare, che assedia e satura la sfera massmediatica in cui abitiamo. L’eccezionalità o unicità dei suoi referenti, infatti, impone a chi scrive, ogni volta, l’invenzione di una lingua nuova.

Non solo: il poeta è il tramite di una parola che, affiorando alla sua coscienza da una misteriosa profondità, fa riscoprire il fascino del vivere. È capace, scrive Motta, «di quell’attesa a volte estenuante e di quel paziente abbandono che consentono alle sue più radicali e ossessive emozioni di risalire alla superficie della ragione, e di tradursi in linguaggio, in musica». Contemporaneamente, questo vissuto personalissimo e privatissimo, dal quale ogni poeta è posseduto, finalmente verbalizzato, trasmette una testimonianza dell’esperienza dello spirito in atto che fa crescere ed educa la coscienza, nella percezione tangibile del mistero che in ogni essere e in ogni circostanza del vivere è presente e opera, attendendo il nostro riconoscimento per mostrarsi.

Ecco il perché della similitudine con una sghemba, fiabesca storia d’amore che ha per protagonisti una ragazza bellissima e un mostro: l’uomo, da sempre, è assetato di sacro, e dunque, di poesia, ma facilmente — chiosa Motta — per pigrizia o accidia, o semplicemente per debolezza e timore, recalcitra di fronte allo sforzo, all’educazione, al percorso che occorre per giungere alla fonte capace di interpretare il suo stupore. Svalutando la portata di ciò che ha intuito si accontenta di surrogati; quelle che erano terre di sogno diventano terre di conquista (Roberto Mussapi) se non accettiamo l’urto di ciò che strappa l’individuo al suo egoismo, come sintetizza Alda Merini, intervistata da Alessandro Gamba mentre prepara la cena per i suoi amici. «Leggi Rebora e capirai» consiglia invece, lapidaria, Patrizia Valduga, perché la poesia — quando è “veramente poesia” — è sempre ricerca e desiderio di salvezza, per sé e per il mondo intero, e il mistero dell’Essere è il suo orizzonte, che il poeta ne sia consapevole o meno

di Silvia Guidi.