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Il dono di un’identità condivisa

Gli allievi di una scuola a Ubari, in Libia (2018)
01 giugno 2020

Un progetto internazionale per studiare la società libica e preparare la ricostruzione


«Fondare biblioteche — scrive Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano — è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l’inverno dello spirito (...). Ho ricostruito molto — dice il protagonista del libro, facendo un bilancio della sua governancedell’impero — e ricostruire significa collaborare con il tempo (...) significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti». Un Paese, anche se dilaniato dalla guerra, campo di battaglia di interessi e forze estranee alla sua storia, può ripartire attingendo alle sorgenti dalla sua identità profonda, dei suoi valori condivisi. Per questo la cultura può essere un potente strumento di pace, per questo «collaborare con il tempo», anche in mezzo a conflitti che sembrano insanabili, è l’unica strategia di lungo corso che può portare risultati concretamente positivi.

Ne sono convinti i promotori del progetto internazionale Libia: identità culturali, fortemente voluto dalla Società Geografica Italiana (e in particolare dal suo Centro per le relazioni con l’Africa) e sostenuto dal Ministero degli Affari Esteri italiano con lo scopo di far dialogare studiosi provenienti dall’una e dell’altra sponda del Mediterraneo sull’identikit del Paese, mettendo in comune il vasto patrimonio di documentazione, cartografia, e letteratura scientifica italiano sul tema. L’obiettivo è progettare e svolgere insieme un’approfondita analisi sociale sul territorio, una ricerca non solo accademica ma anche “applicativa”, da pubblicare in arabo, inglese e italiano, per capire meglio il presente e guidare con cognizione di causa le scelte del futuro.

E il futuro è sinonimo di giovani: non a caso nello staff del progetto ci sono anche due ricercatori “junior”, Giovanni Cordova e Ishrak Galousi. Molte energie saranno dedicate a capire come i giovani libici vedono se stessi, e quale futuro sognano e desiderano costruire, che cosa considerano una priorità irrinunciabile. «Della storia dalla colonizzazione italiana al periodo di governo di Gheddafi si conosce abbastanza — spiega il professor Antonino Colajanni, direttore scientifico del progetto, esperto di “ricuciture sul campo” in scenari complessi, soprattutto in America Latina — La letteratura esistente, giornalistica e di studio, è molto estesa, mentre della situazione sociale contemporanea del paese, delle diversità socio-culturali e politiche regionali si sa molto meno». La scorciatoia di “paracadutare” schemi e progetti totalmente estranei alla cultura locale è la causa di tanti fallimenti annunciati.

«Spesso — continua Colajanni — si parla di “struttura tribale” in senso dispregiativo, ma è un approccio sbagliato a livello di metodo. O le tribù ci sono (e allora bisogna considerarle interlocutori) oppure non esistono, sono solo nomi. Per questo è importante capire il controllo e la gestione del territorio, le tensioni e i conflitti tra i diversi gruppi locali, le differenze e i legami esistenti tra le tre più importanti macro-regioni, la Tripolitania, il Fezzan, la zona semidesertica, attraversata dalle vecchie piste carovaniere, e la Cirenaica. Le pubblicazioni su questi temi sono poche e spesso superficiali, come pure sono assai scarse le proposte, i suggerimenti per un processo di “creazione dello stato”».

Prima di avviare qualsiasi processo è necessario conoscere le categorie con cui i libici pensano se stessi e leggono la loro storia, continua Colajanni («altrimenti rischiamo di perseguire progetti che non hanno alcun senso per la gente locale»). È importante capire il ruolo svolto dalle grandi strutture territoriali urbane dei municipi, da cui potrebbero nascere nuove forme di federalismo.

Per ora purtroppo, sulla Libia si stanno addensando nubi molto fosche, nota Paolo Sannella, già ambasciatore d’Italia in svariati Paesi africani, tra i promotori più attivi del progetto Identità culturali. «Negli ultimi mesi, all’ombra dell’ingannevole speranza nata con l’accordo di Berlino dello scorso gennaio, la crisi libica si è aggravata — chiosa Sannella — Questi tragici sviluppi confermano come il conflitto sia sempre più alimentato da interessi ed interventi estranei alla Libia, lasciando alla popolazione locale il solo ruolo di vittima di sempre più gravi e gratuite violenze. Già la cosiddetta rivoluzione del 17 febbraio del 2011 sembrò a molti ispirata da lontano, utilizzando le contrapposizioni anche etniche e culturali esistenti. Gli anni successivi hanno visto una strumentalizzazione sempre più marcata di queste diversità che ha portato prima all’abbattimento del regime al potere e poi all’inizio della guerra civile e all’apertura di fratture profonde fra le diverse componenti di quella società, contribuendo a rendere più grave la fragilità dello Stato e delle sue Istituzioni. Problema questo comune alla maggioranza degli Stati africani, obbligati, al momento della indipendenza, a costruire le nuove “nazioni” con laboriosi processi di conciliazione ed integrazione delle diversità culturali proprie alle loro società e costrette a convivere dalla forza impiegata dalle potenze coloniali. In Libia questo processo — perseguito a modo suo da Gheddafi — è stato drammaticamente interrotto dall’intervento armato occidentale che ha precipitato il Paese in una terribile tragedia che estende ormai le sue conseguenze sull’intera regione e che non sembra di facile soluzione. Sopravvive la speranza di pace basata sull’ancora possibile – ma sempre più difficile – ripresa del dialogo fra i libici alla riscoperta del loro comune destino e della reale possibilità di conciliare le diverse identità». L’Italia, in questo, era stata chiamata direttamente in causa, ma non ha risposto all’appello.

«Ricordo — continua Sannella — come l’esigenza di riprendere il controllo della crisi in mani libiche attraverso rinnovate forme di dialogo fra le più importanti componenti etniche del Paese fosse ben presente nella mente dei capi delle tribù riunite nel Forum appositamente creato. All’inizio del 2013 operarono anzi la congiunzione fra il processo di dialogo interno ed i rapporti fra tale processo e l’evoluzione della posizione della Comunità internazionale e chiesero esplicitamente per iscritto al nostro governo di affidare al presidente Romano Prodi una missione di mediazione capace di condurre alla più larga partecipazione al dialogo in autorevole collegamento con tutti gli altri interessi in gioco. Richiesta a cui non si ritenne utile e opportuno dare alcun seguito. A tale speranza si contrappongono apparentemente oggi due diverse soluzioni altrettanto gravi e contrarie agli interessi di quelle popolazioni: la continuazione di una guerra sempre più disastrosa condotta e decisa da altri, oppure la spartizione della Libia in due o più aree di influenza sotto il controllo delle potenze che attualmente si confrontano sul terreno e che potrebbero trovare più utile giungere alla fine ad una intesa che soddisfi i loro principali interessi».

I lavori sono stati rallentati ma dalla pandemia, ma continua il dialogo a distanza tra i vari enti coinvolti nel progetto: l’Istituto per l’Oriente, il Centro Relazioni con l’Africa, le università di Tripoli e di Bengasi e la Biblioteca dell’Archivio Storico Nazionale libico.

di Silvia Guidi