L’«epos familiare» della poesia di Attilio Bertolucci, a vent’anni dalla scomparsa

Il coraggio di raccontare il paradiso

Attilio Bertolucci
13 giugno 2020

Quasi a voler depurare le tante nefandezze che gli esploderanno nelle viscere, il Novecento ha prodotto generazioni su generazioni di poeti indimenticabili. In particolare nel nostro Paese tra gli inizi del secolo e gli anni 20 verranno alla luce, uno dopo l’altro, i giganti della nostra letteratura recente. Voci straordinarie divenute classiche, figlie di una tradizione radicata nella nostra lingua.

Tra queste voci spicca per dolcezza e visione quella di Attilio Bertolucci, oggi ricorre il ventennale dalla morte.

In altri Paesi, dove la poesia non viene vissuta come un oggetto di modernariato ma, ancora, come lingua d’elezione concessa a noi umani, questa ricorrenza verrebbe ricordata con la giusta attenzione, e riconoscenza.

Attilio Bertolucci, oggi, viene ricordato per la sua poetica in netta controtendenza rispetto ai registri novecenteschi, ma il dato che resta come marchio imprescindibile è la relazione, viva e riuscitissima, che prosa e poesia vivranno nella sua letteratura. Bertolucci, molto semplicemente, smonta questo dualismo vecchio quanto il mondo, ma in sostanza artificiale, di concetto. La riprova sta nella sua produzione. Nella magnifica osmosi che queste due lingue hanno vissuto in tutte le sue opere, dove prosa e verso si ritrovavano come amanti in una storia d’amore, dove, più che voglia di prevalere, c’è desiderio di convivere, intrecciarsi, aumentare il potenziale dell’altro.

In questo senso, è divenuto paradigmatico il suo romanzo in versi, La camera da letto. Composto da due volumi, usciti rispettivamente nel 1984 e 1988, dopo un lavoro lungo oltre trent’anni, rimane a tutt’oggi l’emblema di tutta la produzione di Bertolucci. L’originalità del romanzo non si esaurisce nella natura del dettato, come giusto che sia, l’andamento poematico-prosastico è la forma di un contenuto altrettanto unico e in controtendenza rispetto al Novecento. Perché Bertolucci, nella sua Camera da letto, ci offre un’epopea che poco sembra avere a che fare con il Secolo breve. Ci offre la storia della sua famiglia. Un racconto dal sapore biblico, fatto di viaggi, quelli dei suoi antenati dalla Maremma all’Appennino parmense, di nascite e fatti di vita che appartengono all’universo dell’umano. Un testamento di generazioni di Bertolucci, di uomini passati per il lavoro della terra e dell’amore.

La Camera da letto, però, genera anche un pericoloso equivoco. Molti, troppi, sintetizzano in questo meraviglioso esperimento, riuscitissimo, tutta l’opera di Attilio Bertolucci. Un errore mutuato anche da tanti libri scolastici che nominano il poeta solo in riferimento a questo romanzo così particolare. No. Questa semplificazione è sbagliata quanto ingiusta. Perché Attilio Bertolucci è stato in primis un poeta che ha regalato al mondo poesie universali. Accessibili a tutti. Una poesia, la sua, che cerca il cuore del lettore, che non si interessa alla sua erudizione, che ha il coraggio di dire il paradiso che ci accade ogni istante negli occhi.

E di paradiso è piena la campagna bertolucciana, ogni singolo elemento della natura diventa custode di meraviglia, ogni pianta, insetto, animale, tutti concorrono alla vita di favola e smarrimento del poeta. Dalla gaggia al lussureggiante glicine, dalle libellule alle cicale, passeri e lucertole. Una natura nominata nome per nome, sempre, con una conoscenza innamorata e infinita. Su tutto, scontornato ma sempre presente, il lavoro degli uomini con la terra. Il lavoro eterno della terra. Contadini, trebbiatrici al lavoro, la nobile umiltà di una tradizione che accadeva davanti agli occhi del giovane Attilio in tutta la sua grandezza.

I libri di poesia di Bertolucci vanno letti, si spera che i programmi scolastici delle nostre scuole accolgano il prima possibile le esperienze più importanti degli ultimi 60, 70 anni di poesia italiana. Perché la poesia italiana del novecento è semplicemente immensa.

Nella ricca produzione bertolucciana sono almeno due le raccolte che meritano una menzione speciale. La prima è Fuochi in novembre, del 1934, la seconda La capanna indiana, del 1951. Due raccolte che verranno rieditate più volte nel corso degli anni. Ma Attilio Bertolucci non è stato solo un grande poeta, un grande traduttore, un artista che ha orientato con la sua visione il lavoro culturale del Paese, è stato anche un uomo, in un momento di grande crisi rispetto al tema, che ha testimoniato quanto si possa essere artisti mantenendo viva la scommessa più antica di tutte: dare corso a una famiglia. Senza enfasi alcuna, senza retorica inutile. Vissuta semplicemente, riconoscendo in quel nucleo primario dell’umanità un moltiplicatore di esperienze e talenti. Un luogo, anche, dove trasmettere arte per come è sempre stato, da padre a figlio. E in questo la famiglia Bertolucci ha davvero rappresentato una magnifico esempio nel secolo più difficile di tutti. Una famiglia dove arte e amore amoreggiavano senza sosta, come poesia e prosa dentro l’opera di Attilio.

Ma ricordare un poeta senza offrire la sostanza dei suoi versi sarebbe imperdonabile. E di poesie, sulla famiglia come approdo della vita, sui figli come dono da lasciare al mondo, Attilio Bertolucci ne ha scritte tante, e bellissime. Come questa.

di Daniele Mencarelli


Bernardo a cinque anni


Il dolore è nel tuo occhio timido
nella mano infantile che saluta senza grazia,
il dolore dei giorni che verranno
già pesa sulla tua ossatura fragile.

In un giorno d’autunno che dipana
quieto i suoi fili di nebbia nel sole
il gioco s’è fermato all’improvviso,
ti ha lasciato solo dove la strada finisce

splendida per tante foglie a terra
in una notte, sì che a tutti qui
è venuto un pensiero nella mente
della stagione che s’accosta rapida.

Tu hai salutato con un cenno debole
e un sorriso patito, sei rimasto
ombra nell’ombra un attimo, ora corri
a rifugiarti nella nostra ansia.