Claudio Chieffo oggi avrebbe settantacinque anni

Il cantautore con un amico grande grande

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22 giugno 2020

Era stato un tuffo al cuore, una commozione bella la mostra che proposero al Meeting di Rimini due anni fa, per ricordare Claudio Chieffo, cantautore, cristiano. Si entrava in uno spazio circolare dove tra le fotografie e  i video la sua musica girava e avvolgeva, e potevi ripercorrere un gran pezzo di storia. Italiana, europea, della Chiesa. La tua storia, che le canzoni di Chieffo hanno attraversato, segnato, sostenuto. Quante messe, feste, gite, quante chitarre sui pullman hanno accompagnato parole in cui ti riconoscevi come in quelle di Guccini, Vecchioni, Venditti. L’epoca gloriosa dei cantautori, che osavano domande alte, parlavano dei desideri che avevi anche tu. Solo che le parole di Chieffo scaldavano il cuore, davano speranza.

Claudio Chieffo però non  incantava i critici, «personaggi austeri, militanti severi». Lui non ha mai detto «che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia». Faceva compagnia, invece. E anche poesia, perché soprattutto negli anni della maturità, e negli ultimi anni, i suoi testi erano più drammatici, più profondi, invasi da una tenerezza d’attesa che guardava al compimento.

Il cantautore cattolico più cantato al mondo ha iniziato a cantare prima che nascessi, dai campi scuola dell’Azione cattolica, nella sua Forlì, per approdare in Sud America e in Kazakistan, primo e unico musicista a esibirsi  in un gulag, davanti a centinaia di donne deportate. Non capivano nulla dei testi, capivano il sorriso contagioso, la passione, la dolcezza e la forza della musica che è sempre stata il suo servizio, la sua risposta al dono dell’incontro con Gesù, per tramite di un sacerdote grande e grosso che seguendo don Luigi Giussani aveva aperto un nuovo cammino nella Chiesa, Comunione e liberazione. Don Francesco Ricci, compagno di strada e maestro di tanti giovani, aveva girato il mondo, soprattutto aveva il coraggio di girare l’Europa del’Est, raccogliendo testimonianze, portando aiuti e speranza, e creando nella sua Forlì un centro studi che permise di far conoscere e pubblicare in Italia gli autori dissidenti russi, cechi, polacchi.

Vaclav Havel, e il suo rivoluzionario e attualissimo Il potere dei senza potere, lo ricordo con la copertina bianca con la scritta Cseo in arancione, in alto, ed eravamo ragazzini quando ci insegnavano ad allargare lo sguardo, a ragionare sul mondo che avremmo voluto, a scoprire sintonie con maestri del pensiero che erano superficialmente o a bella posta trascurati.  Claudio a sua volta farà concerti da clandestino a Varsavia, unico italiano, davanti a due cardinali che avrebbero segnato la storia della Chiesa e del mondo, Stefan Wyszyński e Karol Wojtyła. (Davanti al Papa Chieffo canterà decine di volte, e il Papa canticchiava al seguito).

Scriveva di sé, dell’amore per i suoi figli (che hanno raccolto l’eredità del suo cuore e della sua voce), del viaggio e della paura, della guerra e del potere, della Madonna. La sua Ave Maria splendore del mattino era il Salve Regina del 2000, ebbe a dire il cardinale Biffi. Canzoni impegnate, ma con la propria vita e quindi afferrabili da tutti, dai bambini, che si scatenano  coi battiti di mani su Ho un amico grande grande; nelle parrocchie più diverse dove Il signore ha messo un seme o Io non sono degno vengono cantate con le più diverse intonazioni, cadenze, ma non importa, perché una canzone se diventa tua ne fai ciò che senti, ciò che ami. E Claudio a tutti parlava di Gesù, cioè dell’uomo.  

Amico di pittori come William Congdon, di scrittori  e poeti, come Gaber, trascinato perfino al Meeting dell’amicizia tra i popoli in un concerto impensabile. A lui aveva dedicato uno de suoi testi più dolci, La canzone del melograno, con quella mano tesa «è da sempre che cerco la casa dove posso tornare». Gaber l’aveva difeso, quando «se non cantavi col cuore a sinistra rischiavi l’impopolarità e l’emarginazione dai circuiti musicali».

Claudio non  coltivava  il cinismo, la lamentela, nessun maledettismo che si trasforma con le comparsate in tv in una vita in posa, comodamente adagiati su divani gonfi di diritti d’autore. «Lei non ha un pubblico, ma ha un popolo», gli disse stupito un giornalista dopo un concerto travolgente. «Io faccio parte di quel popolo», rispose. Un popolo in cammino, cui ha saputo ridonare  il dono della musica. Avrebbe 75 anni Claudio Chieffo, cinque meno di Guccini, che gli stava simpatico, con cui aveva suonato, infinitamente più famoso di lui. Entrambi così seri quando le urgenze di un significato non le puoi più fuggire,  così generosi nel condividere, incontrare, mettersi in discussione.  

Claudio con il sorriso luminoso di chi ha saputo sempre di essere preso per mano, anche nella malattia più crudele, e che poteva scrivere,  all’amico accigliato e corrusco in Canzone per Francesco: «Non temere la notte, sentinella, io non sono il nemico, ma il giorno che viene». E qui “io” è da leggere con la maiuscola, perchè è «l’amico grande  grande, più grande di un re».

di Monica Mondo