Frontiere ecclesiali

Ho vissuto con i rom con l’istinto della mula

Cristina Simonelli (da moltefedi.it)
27 giugno 2020

Cristina Simonelli, teologa, racconta i suoi 35 anni in un campo


Fiorentina di nascita e veronese di adozione, Cristina Simonelli ha iniziato a studiare teologia dall’interno di un’esperienza di condivisione: dal 1976 al 2012 ha infatti vissuto in contesto Rom, prima in Toscana, poi a Verona, entrando a far parte del Gruppo Ecclesiale veronese per i Sinti e i Rom, comunità di vita oltre che realtà pastorale. A questo titolo è stata presente nella rete che ha sostenuto questo tipo di pastorale della Chiesa Italiana. Ha conseguito nel 1993 il Baccalaureato in Teologia a Verona, affiliata all’epoca al Laterano (PUL), nel 1995 la Licenza in Antropologia teologica presso l’allora Studio teologico fiorentino (aggregato all’epoca alla Gregoriana-PUG), il Dottorato in Teologia e Scienze patristiche presso l’Augustinianum (Roma). Attualmente è docente di Storia della Chiesa e Teologia patristica a Verona (Studio teologico San Zeno, Istituto Superiore di Scienze Religiose San Pietro Martire) e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano). Attenta alla questione femminile e prospettiva di genere si è associata fin dalla sua fondazione al Coordinamento delle Teologhe Italiane, di cui è ora Presidente.Sono entrata in un campo rom a 20 anni, un po’ per caso e un po’ per sfida, e ci sono rimasta 35 anni. Volevo mettere alla prova il Vangelo, nelle sue frontiere: perché se funziona lì allora funziona anche al centro, pensai. Quando lo dissi a mio padre, lui mi rispose: «Se Dio non esiste, voi siete perduti»: io perduta non mi sono sentita mai.

La mia è stata una vita un po’ a casa e un po’ fuori luogo, un po’ a proprio agio e un po’ spaesata, da quando ero una ragazza degli anni Settanta, asimmetrica, terzomondista, resistente e di quel femminismo respirato per cui ritenevo di non dover essere autorizzata da nessuno. Quando nel 1975 la soglia della maggiore età si è abbassata a 18 anni, a me si è spalancato un ventaglio di libertà.

Adesso vivo ancora in zona sinti-rom, non più in un campo ma nella stessa comunità divita, in quel lontano che mi è diventato oltremodo vicino: ho passato quei 35 anni come un giorno, come un’ora di veglia nella notte, citando il salmo. In un lembo di terra in cui, rifatte le mappe, la vita comune è possibile, promessa di più pacifici universi di vita e di pensiero.

Anche le frontiere della comunità ecclesiale avrei voluto abitare permanentemente, perché la chiesa è in se stessa profondità e frontiera, e studiando la storia delle donne mi resi conto che alcune figure femminili partivano corpo a corpo col Vangelo, come se fossero autorizzate dal Vangelo. Quando mi sono chiesta perché, mi sono risposta che alla donna accade ciò che accade alle minoranze, anche se minoranze non sono: ma è la marginalità imposta che le accomuna e tramuta la quantità (siamo maggioranza) in qualità (siamo ritenute secondarie). A volte sembra che le donne, come i rom, siano oggetti che la chiesa tratta e non soggetti ecclesiali con pieni diritti. Non è così: cambiamo l’idea di centro e di periferia e si vedrà che siamo soggetti a pieno titolo.

Nel 1975 c’era l’onda lunga del Concilio e si lavorava tanto nelle parrocchie, il rapporto tra il Nord e il Sud del mondo mi appassionava, ero stata un anno in una comunità di missionarie ma non mi bastava più. Volevo andare in Africa, ai rom non ci pensavo ancora. Li vedevo per strada e mi colpivano per la loro estraneità e quella loro fierezza, ma niente di più.

Ora, a chi mi chiede sempre e soltanto questo, la mia vita con i rom, rispondo, come faceva un’amica, con un brano di Saint Exupery: «Certamente un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola è più importante di tutte voi perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi. Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi e vantarsi o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa». Sì, loro sono la mia rosa.

Anche nella teologia, tradizionale dominio maschile, sto bene ma mi sento pure un po’ fuori posto: è un mondo che mi consente di incrociare linguaggi diversi, persino molto stimolante, tanto da apparirmi una sorta di principio euristico, un modo di stare al mondo, di abitare la città e anche la chiesa, secondo il principio della mula: «La mula (…) pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori e a metter proprio le zampe sull’orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto o, come pensava lui, un precipizio. “Anche tu — diceva tra sé alla bestia - hai quel maledetto vizio d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero”».

Così come per la teologia, quando entrai nel campo rom a 20 anni non si trattò di un’affinità spontanea ma di una scelta, anche se a quel tempo non sono stata io a scegliere ma un amico, Sergio. Avevamo già incontrato una comunità di sinti in Toscana, poi lui aveva conosciuto una famiglia e tenuto una bimba a battesimo, era diventato per loro un compare, quasi un parente.

Cominciò con un invito di Giuseppina, la madre della piccola: «Venite qui, c’è posto». E così siamo stati catapultati in quel mondo, come fosse l’alba del primo giorno del mondo.

Devi imparare tutto. A vivere in una roulotte, e a muoverti in punta di piedi. A pregare nel loro santuario e loro nella tua chiesa; a reggere gli sguardi delle maestre che ricoprono anche te dello stesso velo di diffidenza di quelle famiglie che non vogliono essere “normali”.

Molto mi ha aiutata quel mio essere spaesata e sempre fuori luogo. All’inizio è come un viaggio all’estero, ti muovi con le orecchie e gli occhi ben aperti, devi imparare i modi di parlare, la cortesia che segue altri canoni, e alla fine è come quell’espressione che si usa nel matrimonio: «Prometto di amarti e onorarti per tutta la vita». Onorarli non è un dettaglio, a volte è stato un sacrificio; e non è detto che tutto funzioni alla perfezione.

Una nostra compagna della comunità veronese raccontava che lei, di tradizione intellettuale, per anni non aveva preso in mano un libro, perché sarebbe stato come mettersi su un altro piano, rispetto a loro. Nessuno di noi leggeva niente. Poi, quando finalmente abbiamo iniziato a leggere e io a studiare, la nostra vita è diventata appropriata, a proprio agio, più libera.

Ho calpestato queste terre, ho abitato questi mondi, per comprenderli. E ho condiviso la vita, le nascite, i matrimoni, le difficoltà, i pregiudizi. Sono loro, i rom ma soprattutto le donne, le romnia, le principali vittime della discriminazione; con loro e per loro attraversi un’altra frontiera che è quella del razzismo perché morte le streghe, morto l’antisemitismo, forse, sono rimaste le zingare rapitrici a nutrire le isterie di cui la società ha bisogno e di cui l’alterità interpretata come minacciosa è stata sempre ottima fornitrice.

L’intolleranza e il razzismo non sono scomparsi, e coinvolgono anche le chiese. Nella seconda metà del XX secolo, periodo del Concilio, nacque una forma di condivisione della realtà rom basata sulla sua stima, piccole comunità ecclesiali la vivevano — e tuttora la vivono — e hanno sviluppato una ministerialità ampia e inclusiva. Le piccole comunità — di uomini e donne, di laici e preti, di religiose e frati — hanno molti legami: con la Cei e con realtà ecclesiali europee e mondiali: macché confini!

Attualmente l’esistenza di associazioni rom, a livello culturale e politico, sta aprendo nuovi scenari.

Gli uni di fronte agli altri, impariamo chi siamo: e in quegli anni di vita nei campi rom abbiamo potuto vedere noi stessi allo specchio. Questa idea dello specchio può anche essere usata per il rapporto “Chiese/Rom”: infatti, non è solo questione di descriverlo dal punto di vista pastorale, ma di chiedersi quali sfide e quali immagini di Chiesa ne emergano. Nel 1965 a Pomezia, Paolo VI disse ai pellegrini: «Voi non siete ai margini della Chiesa, ma sotto certi aspetti, siete al centro, siete nel cuore». Fu il primo discorso ufficiale di un Papa a non contenere un decreto di espulsione dallo Stato Pontificio. Eppure, con quel suo «ma sotto certi aspetti», il Papa dimostrò che la sfida era in corso, non risolta, e purtroppo è ancora così.

di Cristina Simonelli con Lilli Mandara

* * *

Giuseppina, la donna sinta, prima di morire, mi ha regalato uno scialle di lana che conservo. Un gesto piccolo dal grande significato. Quello scialle che Giuseppina indossava mi ha fatto pensare al mantello che Antonio eremita del deserto ricevette e a sua volta lasciò in eredità.