LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Riflessioni sugli effetti della pandemia con Marco Bracconi a partire dal suo pamphlet «La mutazione»

È il corpo il nostro
vincolo di uguaglianza

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04 giugno 2020

«Il punto di svolta è stato vedere il Papa camminare da solo in via del Corso per andare a pregare davanti al Crocifisso della chiesa di San Marcello».

Marco Bracconi non nasconde il senso di ammirazione e gratitudine per quel gesto del Papa il 15 marzo scorso, una settimana dopo che il mondo si era bloccato e chiuso in casa. In quel paesaggio disegnato e segnato dalla presenza del covid-19 ecco che qualcuno «ha infilato una zeppa», proprio lì, «nel posto che era appena stato vietato ai nostri corpi in via di sterilizzazione». Il Papa, scrive Bracconi nel pamphlet appena uscito in e-book La mutazione per l’editore Bollati Boringhieri, «si è messo in mezzo e ha buttato un corpo da diecimila tonnellate per strada. Uno solo che riassumeva i corpi di tutti gli altri. Come fosse lì in attesa del loro ritorno piuttosto che per dire una preghiera».

Bracconi non è un credente, è un cattolico come tutti noi italiani (ha ancora ragione Croce, riconosce) e a lui non hanno tanto colpito le parole o le preghiere del Papa ma il fatto in sé: quest’uomo si è mosso, ha camminato per la città svuotata e ha posto al centro dell’attenzione del mondo la sua persona, il suo corpo, nel momento in cui il corpo era stato bandito dalla società, dalla convivenza civile. Tutto questo mentre stava scrivendo un pamphlet sulla “mutazione” che la società occidentale sta vivendo, vale a dire quel trasferimento verso il mondo digitale che ha, tra gli altri effetti, anche quello della smaterializzazione, della scomparsa del corpo a beneficio della sua rappresentazione.

«In realtà stavo scrivendo un romanzo distopico che avrebbe dovuto parlare della sostituzione della vita con il concetto di “stile di vita” e della torsione globale verso il digitale; poi la realtà ha superato quello che io volevo raccontare con la fantasia: la pandemia del covid-19 ha bloccato il mondo intero come in un fermo immagine. A quel punto la mia attenzione si è concentrata su alcuni paradigmi che si stavano affermando, il più pericoloso dei quali era l’aria di millenarismo che abbiamo respirato per due mesi. Frasi ripetute come un mantra e ci dicevano “nulla sarà mai come prima”, oppure “una cosa così non è mai accaduta prima”. No, questo non tornava. A partire da un aspetto della questione che non veniva messo nella giusta luce: non solo ci eravamo chiusi in casa ma c’eravamo anche trasferiti in massa nel mondo del digitale, e questa evacuazione collettiva, non solo dalle strade e dalle piazze ma anche dalla realtà fisica verso la rete, non era adeguatamente sottolineata. Forse perché non era, appunto, una cosa “mai successa prima”, ma un processo già in corso, che si è dato per scontato. Ho deciso allora di scrivere un pamphlet, non più un romanzo, ma sotto forma di lettera indirizzata direttamente al virus, “accusandolo” di aver disvelato una realtà già in atto ma inavvertita. E mentre stavo riflettendo su questo ho visto quell’immagine, il Papa che cammina da solo per strada. Una delle immagini più potenti che abbia mai visto».

A quella scena lei dedica qualche pagina nel suo testo di grande intensità, colpito dal fatto che il Papa ha voluto dire quello che ha detto «con il corpo. La parte di noi che tu [covid-19] aggredivi e Internet surrogava. E così quella passeggiata romana è diventata una rissa. Un corpo estraneo e contundente scagliato contro lo schema di esattezza della quarantena». Che intende con questa espressione?

Il gesto del Papa è stata l’irruzione della vita dentro i rigidi confini dell’esattezza, confini che noi in realtà ci stavamo già imponendo con l’avvento del digitale. Nel mio linguaggio “lo schema di esattezza” è l’esatto opposto della spiritualità, uno schema di perfezione geometrica che riduce tutto a moltiplicazione, anche ciò che è umano e che per sua natura è imperfezione, se vogliamo eccedenza. Di quella camminata del Papa è stata sottolineata la dimensione della solitudine e il significato di conforto alla città. Ma entrambe le interpretazioni sono state pigre, un po’ spaventate. A me sembra invece che in quel gesto ci sia stata anche la risposta alla moltiplicazione dei nostri corpi digitali. Nel libro scrivo che il corpo del Papa è un corpo «esponenziale al contrario» che si riduce a un solo corpo ed è solo quell’uomo, unico, come volesse ricordarci che la nostra identità è innanzitutto corporea, sensibile. Il fatto stesso di uscire in strada e presidiare con il proprio corpo il mondo reale è stata a mio modo di vedere un’intuizione potente (non importa quanto consapevole) contro la smaterializzazione delle nostre vite. Ecco allora la risposta di Bergoglio allo schema di esattezza: da una parte il riconoscimento dell’unicità del corpo, della sua sostanza e materia, dall’altra l’idea moltiplicatoria della rete che riduce il soggetto umano alla sua funzione, che poi finisce per essere quella del consumatore.

Le sue parole mi fanno venire in mente che di recente il Papa ha invitato i fedeli a «passare dalla cultura dell’aggettivo alla teologia del sostantivo»..

Formidabile, è proprio così! Il soggetto, con il suo corpo, non è interscambiabile. Quando invece diventiamo account non siamo più soggetti, né individuali né sociali, ma solo moltiplicatori della rete, oggetti, “cose” che possono manipolare o essere manipolate in termini di potere. Per questo dico che l’eguaglianza vera può e deve essere quella del corpo, non quella simbolica, che non è mai tale. L’eguaglianza basata sulle rappresentazioni simboliche è quella dei sistemi totalitari. La democrazia, quella vera, ha bisogno della carne.

Qualche giorno dopo il Papa è di nuovo uscito, in carne e ossa, e si è presentato nella piazza San Pietro vuota e bagnata dalla pioggia e, tra le altre cose, ha pronunciato parole forti come quando ha detto che la nostra era un’illusione, che credevamo di «essere sani in un mondo già malato». Cosa ha provato ascoltando quelle parole?

Sono quasi caduto dalla sedia: l’unico a fare un discorso non millenarista o consolatorio era lui, il Papa. Tutti i laici (forse con l’eccezione di Cacciari) hanno giocato a fare i millenaristi o, al contrario, i cantori di una palingenesi di homo sapiens capace di attuarsi in poco più di 24 ore. Così le parole più razionali e credibili sono arrivate dall’autorità religiosa: ricordandoci che eravamo già malati e isolati il Papa ha sdrammatizzato la situazione, l’ha sottratta a quell’alone millenaristico, facendoci presente che non si trattava di una novità assoluta, del Male assoluto. Alla fine bisogna ammettere che noi laici abbiamo trattato il covid-19 come Satana e che invece è stato il Papa a ricordarci che è solo un virus. Certo, Francesco ha sentito che le persone avevano paura e che bisognava star loro vicini, ma non ha mai elevato il virus a nemico, mai. C’erano due modi di leggere l’emergenza e il lockdown: o come “supplenza” o come l’inizio di un nuovo mondo, e il Papa l’ha vista giustamente nel primo modo, rimettendoci coi i piedi nella storia. Come a dire: “niente di nuovo, un’epidemia è la cosa più costante che conosciamo” e ad ammonire “non è vero che nulla sarà mai come prima”. Così quell’istantanea di via del Corso mi è apparsa come lo scrigno di un messaggio tanto concreto quanto urgente: “guardate che se costruiamo una società senza corpo il mondo perde la cosa più importante, perché il corpo è il nostro unico vincolo di uguaglianza”. Con quella passeggiata trasgressiva il Papa ha allungato il passo, ci ha preceduto e ci ha detto “vi aspetto in questo corpo”. È stato l’unico a non rimuovere il fatto che il conflitto tra materia della vita e la sua rappresentazione fosse già ampiamente in corso. Uno scontro attorno all’idea stessa di eguaglianza, perché se il corpo evapora l’eguaglianza non può esistere, non è più tale, diventa impraticabile.

Può fare qualche esempio di questo conflitto che ruota sulla centralità del corpo?

I migranti. Perché ci fanno tanta paura? Perché arrivano con il loro corpo nudo, sporco, vestito come capita, ce lo mostrano in tutta la sua scandalosa consistenza. Il loro messaggio è: con questo corpo noi siamo uguali a voi. Il punto è che noi, con i nostri corpi sempre più astratti e simbolici e sempre meno materiali, non riusciamo più a vederli uguali a noi. Io non sono cattolico ma non serve esserlo per connettersi con l’idea di un Dio che si incarna e muore come ogni altro uomo: è Cristo crocifisso a ricordarci che è il corpo il nostro primo vincolo di uguaglianza e che questo vincolo vale per tutti. Il gesto di Bergoglio da questo punto di vista è il più cristiano che si possa immaginare. Pensi alla questione delle messe: non è anche in questo caso il corpo l’elemento fondamentale? Fondando l’Eucaristia Cristo dice «questo è il mio corpo» e stabilisce che la presenza del corpo non può essere ridotta a simbolo o mediazione. Il corpo c’è, è qui ed è sulla terra. Voglio usare un termine caro a Papa Francesco, prossimità. Non è il cuore del messaggio cristiano, basato sull’amore del proprio prossimo e non del proprio “connesso”? Mi torna in mente la frase che ricordiamo con maggiore emozione di Giovanni XXIII, quell’invito a dare “una carezza ai vostri bambini”. Una carezza da portare con le mani, sull’epidermide, sfiorando quel viso che è l’unico, il solo che abbiamo. L’impossibile da riprodurre, ciò che sarà sempre solo “nostro”.

Del resto la fede cristiana prevede nell’essenza del suo messaggio la risurrezione dei corpi. Dalle sue parole emerge però una condanna della tecnologia, è questa la mutazione di cui lei parla nel libro? Un destino ormai ineluttabile?

No, dire che la tecnologia è il nemico sarebbe un approccio sbagliato alla questione. È vero che con “mutazione” mi riferisco al cambiamento di status del digitale durante il lockdown. Ma è una mutazione che, come dicevamo prima, è avvenuta in continuità, non per causa diretta della pandemia: noi occidentali eravamo già abbondantemente dipendenti dal sistema delle reti, internet di fatto era già diventato un sistema-mondo piuttosto che una mera utility. L’emergenza sanitaria ha semplicemente disvelato questa verità. Nel libro sostengo che il covid-19 sta solo portando a compimento un processo già iniziato, dove nell’immaginario collettivo la rete diventa fine piuttosto che mezzo. Questo per dire che la tecnologia non è il nemico, non può esserlo. L’avversario è l’ideologia dell’innovazione digitale. Ed è l’avversario di chi tiene alla tenuta delle nostre società ma anche di chi ha cuore la dimensione spirituale dell’uomo. Per questo credo profondamente che un’alleanza tra credenti e non credenti sia oggi inevitabile, anzi di più: naturale e fisiologica, perché alla luce di quanto si diceva poco fa sul millenarismo, cercare la razionalità nella fede non è più un paradosso. Ricorda quando a inizio lockdown i social rilanciarono l’allarme per il possibile cedimento dei server? Era un rischio inesistente, però paventato come reale e disastroso. Ecco, quel timore globale metteva in luce la dimensione di intoccabilità raggiunta dal sistema-mondo internet. La supplenza digitale era divenuta totale, il gioco del web non era più quello di un supporto ma quello di qualcosa che ci è necessario per vivere, che anzi ci “salva” in caso di emergenza. È il cambio di status culturale. Un processo che nasconde un’insidia totalitaria.

Non è strano ripetere come abbiamo fatto per mesi che di questo virus non ci liberemo mai più? E non diciamo che dallo smart-working e dal e-learning non si tornerà più indietro? Ma io mi chiedo: non sarebbe importante riflettere, discernere, separare? Domandarci per esempio cosa pensiamo di fare delle università, se le vogliamo concepire come luoghi vitali e fluidi oppure come scatole dove produrre tecnocrazie. E il lavoro in remoto? La mediazione digitale nella produzione non avvantaggia forse la rappresentazione simbolica dell’umano, le sue gerarchie di potere, facendo prevalere ruoli e funzioni sulla persona, l’aggettivo sul sostantivo? Il rischio è costruire attorno allo smart-working un’ideologia che alimenta processi di solidificazione delle nostre strutture sociali, mentre le strutture sociali andrebbero mantenute morbide e fluide, Ingessarle vuol dire ricondurle prima o poi ad un ordine che non è mai democratico.

Il suo libro da questo punto di vista assume un carattere esplicitamente politico.

Sì. La questione infatti è complessa e tocca direttamente la dimensione politica. Non si tratta di contrapporsi altrettanto ideologicamente alla tecnologia, sarebbe sciocco e fuori tempo massimo, probabilmente. Ma credo sia urgente una riflessione attraverso la quale esercitare la salutare pratica del dubbio (che oggi mi sembra essere rimasta tutta nel campo cattolico). Davanti alle molteplici spinte che allentano la coesione sociale bisogna rispondere con audacia e coraggio, magari pensando a un nuovo “patto” col digitale, oggi ancora più indispensabile vista la dimostrazione di forza offertaci dalle Reti durante il lockdown. Ecco, questo sarebbe compito di una politica capace di una visione di lungo periodo. Lavorare ad un nuovo patto con il web, stavolta però tra pari. Io non ho paura del voto online o di altri strumenti hi-tech nelle pratiche sociali, politica compresa. Ma sono terrorizzato da un mondo in cui la formazione dello spirito pubblico avviene per via digitale.

Nel libro sostengo che sarebbe dunque importante ridiscutere i confini e i perimetri, adattando in modo radicale gli strumenti della democrazia novecentesca al digitale ma salvaguardando la presenza fisica delle persone nei luoghi dove si struttura lo spazio pubblico: la polis. Non solo. La democrazia, per come la concepiamo oggi, non può reggere a lungo in un sistema governato dalla tempistica delle reti; un sistema di connessione globale profondamente individualista non è compatibile con l’idea di bene comune che informa i nostri valori democratici. Dire che gli haters e gli spacciatori di fake news sono cattivi non ci serve più a nulla. Lo sappiamo. Più utile sarebbe ragionare sulla struttura del web, cominciando a dibattere su ciò che può esser “suo” e su ciò che invece deve restare “nostro”, fisico, corporeo. Cercando in questo modo la strada che ci permetta di tornare a parlare tra noi davvero, e non solo per via simbolica.

Collegato a questo c’è il punto della solitudine. Rispondere alla grande solitudine degli uomini nelle città forse è la più grande e più urgente sfida della politica.

«È così. E la risposta a questa emergenza non può essere l’affidamento al digitale. C’è chi come Alessandro Baricco, in quei giorni di isolamento sociale, ha parlato di utopia bio-tech, di “estensione” dei nostri corpi biologici, di razionalità del web. Affascinante, forse. Ma non c’è bisogno di riesumare categorie vetero-marxiste per ricordare che del nostro corpo siamo padroni, mentre delle nostre “estensioni” digitali un po’ meno. Le cinque più grandi aziende del pianeta sono digitali, e il loro principale interesse non è l’emancipazione dell’essere umano, bensì il profitto. È un altro aspetto della mutazione: trasforma il nostro corpo da corpo sociale a corpo desiderante (e quindi pronto per il consumo), uno scenario che ricorda l’antico motto dei romani, “panem et circenses” (non a caso i cristiani dai romani venivano perseguitati). In altre parole: ci stiamo smaterializzando nella società ma ci vogliamo e ci immaginiamo ancora fisici e materiali di fronte al desiderio. È un grande tema dell’umano, prima ancora che del cattolicesimo. Perché trasformare il corpo sociale in corpo desiderante è un pericolo per tutti. La spiritualità non è un problema esclusivamente religioso, è una sfida per tutti, per la politica e per la cultura. L’obiettivo è dunque comune: tornare ad usare gli strumenti che con tanta genialità sappiamo inventare, ma smettere di farci governare da essi. Le faccio un esempio che riguarda il linguaggio. Nel libro scrivo che stiamo imparando ad usare lo stesso linguaggio per i funerali e per i consigli di amministrazione. È la sintassi digitale che mescola le gerarchie, inquina i rapporti di causa ed effetto, accelera i tempi appiattendo lo iato tra il buon senso e il senso comune. Con quali conseguenze nel lungo termine?.

A proposito di funerali, nel libro si sofferma sulla questione della morte con parole molto forti: «Non è detto che sulla salvezza delle persone Gesù Cristo e internet abbiano per forza le stesse opinioni. Sulla morte sicuramente no. Chiedilo ai preti che partivano di notte per posare la mano sulla fronte dei moribondi [...] l’abrogazione virale del conforto a morenti e cadaveri è stata la più intollerabile tra le privazioni alle quali ci hai sottoposto». E poi è sceso nel dettaglio, su quanto sia terribile «vedere tua madre partire in ambulanza verso un ospedale dove morirà da sola, nel silenzio, in compagnia di compassionevoli alieni in tuta fosforescente senza contare la stessa scena vista con gli occhi di chi guarda suo figlio dai finestrini di un’ambulanza in partenza verso l’Ade. È stato abbastanza spaventoso, sì. Non solo il dolore, anche tutta quella geometria. Per riportarti sotto il nostro dominio siamo stati costretti ad alzare un muro tra i corpi dei vivi e quelli dei morti. Nessun contatto».

Anche qui avviene — e da tempo — lo stesso fenomeno di smaterializzazione. Facebook non è forse anche un meccanismo di immortalità digitale? La rete disdegna il corpo e mira alle anime, tanto che non le fa morire mai. Nel pamphlet mi soffermo sui profili digitali dei trapassati: non ci sono lapidi, ma eruzioni di vitalità. Perduta la life, si resta lo stesso on. Sempre. Il fatto è che la rete sta smaterializzando il nostro rapporto con la morte perché smaterializza in primis il nostro rapporto col tempo. Anche per questo mi ha colpito il gesto “fisico” del Papa: in quei giorni “millenaristi” è stato l’unico a mantenere saldo il filo della storia, quello che inizia da cosa eravamo prima del virus, attraversa ciò che siamo adesso e si interroga su cosa saremo domani. Il tempo. E invece, per molti, quel filo della storia dopo l’otto marzo è sembrato essersi interrotto. Come se non ci fosse stato un prima, come se il dopo fosse già stato stabilito per sempre. Del resto eravamo già abituati dal web a rinascere “nuovi” ogni giorno, a vivere secondo le dinamiche temporali della rete, in quello che io chiamo nel libro l’eterno presente. Un mondo dove il ricordo è sempre attuale, ogni giorno disponibile. Tutto molto bello all’apparenza, ma il prezzo è altissimo: nel sistema-mondo internet non c’è più la memoria (che è un processo) ma c’è l’archivio (che invece è un meccanismo). E se perfino il tema della morte si subordina a questa “assenza” del tempo, recuperare un’idea di tempo storico, non tecnologico, è una delle grandi sfide che abbiamo davanti. Sono convinto che anche da questo punto di vista il cristianesimo possa giocare un ruolo decisivo. Come dovrebbe giocarlo il pensiero critico dei laici più avvertiti. È questo che intendo dire quando parlo di alleanza tra pensanti, credenti e non credenti: se l’emergenza che ci riguarda è la stessa, se il punto di partenza e il fine devono continuare ad essere l’uomo, la sua ricerca di senso e la sua emancipazione, laici e cattolici non possono che parlarsi, magari faccia a faccia. Oggi più che mai.

di Andrea Monda