Il cammino ecumenico con le Chiese ortodosse dell’Europa orientale

Dialogo della verità

Chiesa ortodossa della Santissima Trinità a Sibiu (Romania)
22 giugno 2020

Il 12 ottobre 1962, all’inizio della prima sessione del concilio Vaticano II, i padri conciliari furono sorpresi nel vedere due rappresentanti del patriarcato di Mosca, l’arciprete Vitaly Borovoy, e l’archimandrita Vladimir Kotljarev, prendere posto nella basilica di San Pietro. All’epoca nessuna Chiesa ortodossa aveva ancora deciso di rispondere positivamente all’invito di san Giovanni XXIII a inviare osservatori al concilio. La Chiesa russa, convinta grazie alla mediazione di monsignor Johannes Willebrands, segretario del nuovo Segretariato per l’unità dei cristiani, aveva preso una decisione inaspettata, ma piena di promesse. San Paolo VI ne capì l’importanza e, alcuni giorni dopo la sua elezione, nel luglio 1963, prese la sua prima decisione ecumenica, inviando a Mosca una delegazione della Santa Sede in occasione delle celebrazioni in onore del giubileo episcopale del patriarca Alessio i.

Dopo il periodo della “guerra fredda ecclesiale” che caratterizzò il dopoguerra, questi gesti segnarono una fraternità riscoperta tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa russa. Questa fraternità si approfondirà al punto che delle conversazioni teologiche bilaterali tra la Santa Sede e il patriarcato di Mosca furono istituite nel 1967 e proseguirono fino alla fine degli anni Ottanta. Nel 1969 il santo Sinodo della Chiesa ortodossa russa prese inoltre la storica decisione di consentire, in alcuni casi, l’ospitalità eucaristica tra cattolici e ortodossi, decisione senza precedenti nella storia delle relazioni cattolico-ortodosse e che, sebbene sia stata sospesa nel 1986, testimonia ciononostante il pieno e reciproco riconoscimento dell’apostolicità delle Chiese.

Uno degli attori principali di questo riavvicinamento fu il metropolita Nicodemo, allora responsabile del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del patriarcato di Mosca, che aveva scritto la sua tesi dottorale su Giovanni XXIII e che morì il 5 settembre 1978 tra le braccia di Papa Giovanni Paolo I. Due giorni dopo, evocando questo tragico momento durante un incontro con il clero di Roma, Giovanni Paolo I dichiarò: «Due giorni fa è morto tra le mie braccia il metropolita Nikodim di Leningrado. Io stavo rispondendo al suo indirizzo. Vi assicuro che mai in vita mia ho sentito parole così belle per la Chiesa come quelle da lui pronunciate; non posso ripeterle, resta un segreto. Veramente sono rimasto colpito. Ortodosso, ma come ama la Chiesa!».

Il periodo comunista fu favorevole a certe forme di ecumenismo non solo con la Chiesa russa ma con tutte le Chiese ortodosse dell’Europa orientale. La necessità di affrontare un nemico comune incoraggiava quello che veniva chiamato “l’ecumenismo del gulag”. La partecipazione negli anni Sessanta alle nascenti istituzioni ecumeniche internazionali come il Consiglio ecumenico delle Chiese e la Conferenza delle Chiese europee (Kek), era un’opportunità, per i responsabili ortodossi, di apprezzati contatti con i cristiani d’occidente. Tuttavia, questo ecumenismo coinvolgeva innanzitutto piccoli circoli ecclesiali, e il sostegno che riceveva dai regimi comunisti ha contribuito a screditarlo. Inoltre, è stato spesso vissuto dai greco-cattolici — a forza integrati nelle Chiese ortodosse — come la versione ecclesiale di una “Ostpolitik” che ignorava la loro sofferenza.

Paradossalmente, la caduta della cortina di ferro ha provocato una crisi in questo cammino ecumenico con le Chiese ortodosse dell’Europa dell’est. L’arrivo dei cristiani occidentali è stato talvolta percepito dagli ortodossi come una concorrenza sleale. Inoltre, in occasione dell’uscita dalla clandestinità delle comunità greco-cattoliche, in particolare in Ucraina e in Romania, la Chiesa cattolica è stata sospettata di far rivivere il cosiddetto metodo dell’uniatismo. Infine, la rinascita delle nazionalità in queste regioni suscitava rivalità tra le Chiese. Le Chiese ortodosse chiesero che la questione dell’uniatismo fosse discussa nell’ambito del dialogo teologico internazionale cattolico-ortodosso, che adottò nel 1993 il documento di Balamand il quale rifiuta l’uniatismo come metodo per ristabilire l’unità. In questo contesto di crisi, diverse Chiese ortodosse in Europa orientale lasciarono gli organismi ecumenici internazionali, come la Chiesa di Georgia (che ha lasciato il Consiglio ecumenico delle Chiese e la Conferenza delle Chiese europee nel 1997) e la Chiesa di Bulgaria (che ha fatto lo stesso nel 1998 e nel 1999).

Tuttavia, nuove dinamiche di riavvicinamento furono gradualmente avviate. Consigli ecumenici furono istituiti nella Repubblica Ceca e in Slovacchia nel 1993, in Slovenia nel 1995. Nel 1996 fu istituito in Russia un Comitato consultivo interreligioso cristiano dei paesi della Comunità degli Stati indipendenti e dei Paesi baltici, e in Ucraina un Consiglio panucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose. Nel 1997 è stato istituito un Consiglio interreligioso di Bosnia ed Erzegovina e nel 2005 un Consiglio delle religioni presso il mediatore civile della Georgia.

Dove esistevano problemi specifici furono istituite commissioni ad hoc. Negli anni Novanta e Duemila furono organizzati incontri tra i rappresentanti della Conferenza episcopale croata e la Chiesa ortodossa serba. Nel 2004, è stato creato in Russia un gruppo di lavoro congiunto cattolico-ortodosso per risolvere conflitti concreti. I dialoghi teologici locali hanno talvolta prodotto risultati notevoli: il Consiglio ecumenico di Polonia (di cui è membro la Chiesa ortodossa polacca) e la Conferenza episcopale cattolica polacca hanno concluso nel 2000 un accordo di mutuo riconoscimento del battesimo.

Tuttavia, il lavoro più urgente riguarda la purificazione della memoria. Le tensioni interconfessionali nell’Europa centrale e orientale non sono soprattutto la conseguenza di controversie teologiche ma di ferite storiche della memoria, spesso legate a questioni nazionali. Sono state lanciate alcune iniziative in questo settore. Incontri tra la Chiesa ortodossa russa e la Conferenza episcopale polacca hanno permesso nel 2012 la firma di in un messaggio comune ai popoli della Polonia e della Russia per promuovere la riconciliazione. Nel 2016-2017, su iniziativa della Santa Sede, un comitato congiunto di lavoro composto da storici serbi ortodossi e croati cattolici è stato incaricato di studiare il ruolo del beato Alojzije Stepinac durante la seconda guerra mondiale. La questione non è stata risolta del tutto ma il mero fatto di trattarla insieme è già un passo in avanti.

Al di là di questo ecumenismo istituzionale e del “dialogo della verità”, teologico o storico, si deve sottolineare l’importanza del “dialogo della vita” che si manifesta in una moltitudine di iniziative concrete a livello locale, in tre campi particolari. L’ecumenismo spirituale è vissuto nel contesto della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ma anche in molte altre iniziative, come il prestito delle reliquie di san Nicola nel 2017 da parte della Chiesa cattolica, che ha attirato più di due milioni di pellegrini in Russia. L’ecumenismo pratico riunisce le Chiese nelle opere di carità, nelle dichiarazioni comuni, nelle relazioni con lo stato, come è avvenuto in Slovacchia, dove le Chiese ortodosse e greco-cattoliche hanno concluso un accordo esemplare sulla questione di beni ecclesiastici nel 2000. L’ecumenismo culturale è anche una dimensione importante del cammino comune di unità delle Chiese in Europa orientale: collaborazioni accademiche, festival di arte cristiana, programmi radiofonici comuni, sono tutti fermenti dell’evoluzione delle mentalità e promuovono un respiro della Chiesa e dell’Europa “a due polmoni”.

Questa metafora dei “due polmoni” fu usata da san Giovanni Paolo II, il primo Papa slavo, fin dall’inizio del suo pontificato per illustrare la necessità di un “respiro” comune tra Oriente e Occidente d’Europa, di cui proclamerà co-patroni i santi Cirillo e Metodio, insieme a san Benedetto, nel 1980. Non appena i paesi dell’est furono aperti, Giovanni Paolo II moltiplicherà i viaggi in questi territori, inaugurando persino con la Romania, la Georgia, l’Ucraina e la Bulgaria visite apostoliche in paesi prevalentemente ortodossi.

Sulle tracce di Giovanni Paolo II, Papa Francesco ha anche privilegiato visite in paesi europei di tradizione ortodossa: Georgia, Armenia, Romania, Bulgaria e Macedonia del Nord. Indubbiamente, uno dei momenti più significativi del pontificato nelle relazioni tra cristiani europei d’Oriente e d’Occidente è stato l’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill di Mosca all’Avana il 12 febbraio 2016. In un certo senso, tale incontro è stato un frutto ideale della partecipazione al concilio Vaticano II di due osservatori ortodossi russi nel 1962, e forse anche una eco al segreto di cui parlava Giovanni Paolo I nel 1978. Il Papa e il patriarca hanno dichiarato insieme: «Nella nostra determinazione a compiere tutto ciò che è necessario per superare le divergenze storiche che abbiamo ereditato, vogliamo unire i nostri sforzi per testimoniare il Vangelo di Cristo e il patrimonio comune della Chiesa del primo millennio, rispondendo insieme alle sfide del mondo contemporaneo. Ortodossi e cattolici devono imparare a dare una concorde testimonianza alla verità in ambiti in cui questo è possibile e necessario» (n. 7).

In questo sessantesimo anniversario del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, possa questo appello portare abbondanti frutti e possa il dicastero fondato nel 1960 da san Giovanni XXIII proseguire a promuovere con pazienza e passione la respirazione a due polmoni dell’Europa e della Chiesa.

di Jaromir Zádrapa
Officiale della sezione orientale del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani