La foresta silenziosa Messico

«Ci chiamano le farfalle di Guadalupe, lanciamo cibo ai migranti aggrappati sui treni»

Las Patronas mentre aiutano i migranti (foto da loro profilo Facebook)
27 giugno 2020

Chi attraversa il confine con gli Usa riceve aiuto da Las Patronas, le donne della famiglia Romero


«A Córdoba, Veracruz/le bellissime patrone/ farfalle coraggiose/ danno luce al migrante», recita il corrido (canzone popolare) uno dei tanti dedicati alle «farfalle coraggiose» di Guadalupe o La Patrona, minuscolo villaggio di 3mila abitanti nel municipio di Amatlán de los Reyes, a novanta chilometri dal porto di Veracruz. Là, circondata da campi di canna da zucchero e caffè, c’è la casa, ampia e spartana, della famiglia Romero. E la cucina con i mattoni a vista, il lungo tavolo di legno, i pentoloni scuri e l’immagine della Vergine di Guadalupe – La Patrona, da cui prende il nome la comunità – dove, venticinque anni fa, Leónida Vazquez, le sue quattro figlie e sette tra nipoti e vicine hanno iniziato a preparare le razioni di cibo per le centinaia di migranti che fuggono dalla violenza e dalla miseria del Centroamerica in groppa alla Bestia. Così è conosciuto in Messico il malconcio treno merci che attraversa da sud a nord il Paese, fino al confine con gli Stati Uniti. Blindati negli scompartimenti metallici viaggiano grano, cemento, mattoni da esportare. Aggrappati al tetto o incastrati negli snodi tra i vagoni, ci sono i migranti. Non hanno altra scelta per raggiungere La Línea, i 3.200 chilometri di frontiera che uniscono o separano — a seconda delle convenienze politiche — le due Americhe. La porta, chiusa per un terzo da un muro high tech, dell’ElDorado Usa. Sui bus rischiano di essere intercettati dalla polizia e, nel migliore dei casi, rispediti indietro, in quanto irregolari. Anche sulla Bestia, in teoria, non potrebbero viaggiare. Di fatto, però, macchinisti e autorità chiudono un occhio o tutti e due in cambio di una tangente. E, così, i centroamericani avanzano in un’infinita gincana che dura almeno un paio di settimane. Non c’è una tratta diretta dal Chiapas al Rio Bravo. Le varie locomotive si alternano sulla ragnatela dei binari in tragitti di dieci-dodici ore, inframmezzati da pause di due, tre, anche sette giorni, in cui i migranti diventano bottino dei gruppi criminali che controllano il territorio. Pochi riescono a salvare qualche spicciolo per cibo e acqua. Fame e sete sono oppressive compagne di viaggio nel calvario verso gli Stati Uniti.

Il 7 febbraio 1995, un gruppo di migranti stremati, in attesa di ripartire da Guadalupe-La Patrona, si è imbattuto nelle sorelle Romero. Rosa e Bernarda tornavano dall’emporio con un sacchetto pieno di pane e latte, appena comprati. Ammassati lungo i binari, c’erano centinaia e centinaia di esseri umani, sporchi, laceri, affamati. Uno spettacolo consueto per la gente della comunità. Quel giorno, però, tre ragazzi hanno alzato lo sguardo. I loro occhi hanno incrociato quelli delle due donne. È stato un attimo, lungo un’eternità. «Per favore, dateci qualcosa, non mangiamo da giorni». Rosa e Bernarda sono tornate a casa senza pane né latte e con un’angustia profonda. Subito hanno raccontato l’accaduto al resto della famiglia. «Avete fatto bene figlie mie, avete fatto bene — ha sussurrato la madre Leónida nell’abbracciarle — La Vergine di Guadalupe sarà contenta: ma dobbiamo fare di più».

«Li chiamano le mosche, perché viaggiano aggrappati al treno come insetti. Ma non sono mosche. Sono esseri umani, come me», racconta Norma Romero, anche lei figlia di Leónida e la più conosciuta delle dodici farfalle che ammansiscono la Bestia. «Magari lo fossi. Potrei volare e distribuire i sacchetti con gli alimenti a tutti i migranti del treno. Sono solo una contadina, umile ma fortunata. Dio mi ha dato una famiglia, un lavoro nei campi grazie al quale posso procurarmi da mangiare senza essere costretta a migrare. E molti, molti figli oltre al mio Jafet». Norma, mani callose, lunghi capelli scuri raccolti in una coda e Rosario al collo, dice di considerare tali le migliaia e migliaia a cui ha dato cibo e acqua nell’ultimo quarto di secolo. La sua chiamata, però, non è arrivata quel 7 febbraio. «È accaduto un anno o due dopo. Aiutavo già mia madre e le mie sorelle nella distribuzione. Non è facile: non tutti i macchinisti diminuiscono la velocità quando ci vedono. Devi lanciare il sacchetto il più in fretta possibile e avere già pronto l’altro… Una sera, ero stata troppo lenta. E un ragazzo non era riuscito a prenderlo. In compenso, aveva perso l’equilibrio nello sporgersi. Due compagni l’hanno afferrato ciascuno a una spalla. Il ragazzo, giovane e con la pelle scura, è rimasto in bilico non so quanto tempo, con il corpo e le braccia tese, come Gesù sulla Croce. Allora, ho capito: il Signore era realmente in quel fisico prostrato, offeso, rifiutato da tutti. Mi sono detta: «Vergine di Guadalupe, d’ora in poi saprò riconoscere tuo Figlio nei corpi dei migranti».

È la certezza di servire Gesù, a spingere Norma, ogni giorno, tra le 21 e le 22, e le altre undici Patrone, come le hanno ribattezzate, a caricare razioni di riso, fagioli, tortillas (spianate di mais) e bottiglie d’acqua in zaini e borsoni. Per poi raggiungere i binari, in attesa del fischio della Bestia. «Ormai ci siamo organizzate. Suor Maria de los Ángeles ci telefona da Tierra Blanca appena vede la locomotiva passare. Sappiamo che dopo circa tre ore arriverà da noi. La religiosa ci dice anche la quantità di migranti a bordo per regolarci sulle porzioni». Da dieci anni, oltre a distribuire cibo, le Patronas hanno aperto un piccolo rifugio per chi vuole rifocillarsi prima di proseguire il viaggio. «Era una casetta che mi ha regalato mio padre. L’abbiamo riadattata. Con quali mezzi? Gli stessi con cui ci procuriamo il cibo per i migranti. Noi mettiamo ciò che possiamo. Al resto pensa la Provvidenza. Non abbiamo contributi fissi, non siamo nemmeno un’associazione: riceviamo solo le offerte di quanti vogliono aiutarci. Per fortuna sono tanti. Tanti sono pure coloro che criticano. Dicono che siamo complici dei trafficanti, che sfamiamo i malviventi, come se migrare fosse una colpa e non una necessità…. Non ci facciamo troppo caso e andiamo avanti. Per quanto? Fin quando la Vergine di Guadalupe vorrà. Senza di Lei, le Patronas non sarebbero qui…».

di Lucia Capuzzi