17 giugno 1970 Italia-Germania 4 a 3

Adesso mi tocca andare a fare gol

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16 giugno 2020

Il pallone è in fondo alla rete. Lui è lì, sconsolato, abbracciato al palo. Il portiere gli dice qualcosa, prima di recuperare la sfera maledetta; sicuramente non un complimento. Forse avrebbe potuto fermarla quella palla lenta ma dalla traiettoria infame; magari con un braccio, e poi, chissà, un rigore sbagliato, parato… Invece l’ha solo guardata passare, inerte, a un soffio da lui. Era fatta, la finale a un passo e invece ora è tutto da rifare. E la colpa, lo sente, è anche sua. Ma forse era già tutto scritto nel grande libro del calcio: quella discesa all’inferno e la repentina, immediata, inaspettata risurrezione. E un nome su tutti, il suo: Gianni Rivera.

«A quel gol ho partecipato anch’io». Oggi sorride l’allora golden boy del calcio italiano. Sono passati cinquant’anni da quell’incredibile Italia–Germania, semifinale mondiale, “la partita del secolo”, come la definirono quasi subito, e come ricorda anche una targa posta poco tempo dopo all’ingresso dello stadio Azteca di Città del Messico, dove venne disputata il 17 giugno 1970. Ma Rivera allora sentì tutto il peso di quel gol. E l’imperativo di dover rimediare.

Presunzione? Follia? Fortuna? Forse la semplice determinazione che solo i campioni veri sanno tirar fuori nei momenti più critici. Si sa poi com’è andata. Ma anche se l’hai vista e rivista mille volte, vuoi mettere se a raccontartela è lui, che di quell’incontro epico fu il protagonista, nel male e nel bene? E il racconto parte proprio dal portiere. «Solo in questi giorni leggendo un’intervista ad Albertosi ho capito cosa mi aveva detto. Ma allora — ci spiega — non l’ho neanche sentito, perché ero già arrabbiato per conto mio; però avevo intuito. Mi ricordo che gli ho detto: adesso mi tocca andare a fare gol, sennò non posso tornare in Italia. Ho pensato, ora mi faccio dare la palla, dribblo tutti i tedeschi e poi vado in porta. In realtà mi hanno dato la palla subito, ma ho capito, guardando tutto quel bianco davanti a me, che non ce l’avrei fatta e quindi ho rinunciato. Ho seguito l’azione che si stava sviluppando e mi sono trovato la palla del 4 a 3».

Detta così, sembra niente quel breve comporsi di geometrie che ha consegnato la partita alla leggenda. Sessanta secondi appena, alla ripresa del gioco dopo il gol del 3 a 3 segnato da Gerd Müller al 5° minuto del secondo tempo supplementare. Sei passaggi che racchiudono non solo una partita, ma riassumono la storia del calcio fino a quel momento. Fino a quel tocco magico, scaturito dalla mente di un demiurgo, del dio del calcio sceso per un attimo dall’Olimpo per regalare agli umani amanti del pallone la giocata perfetta, l’unica possibile. Perché è questo che accade. Così inatteso che neppure lui, il protagonista, si rende bene conto di tutto. «Ero convinto di aver fatto gol di sinistro — ricorda, infatti — perché volevo tirare di sinistro nell’angolo opposto da dove arrivava la palla. Poi qualcosa mi ha fatto capire che il portiere si stava tuffando là e allora ho cambiato piede e direzione. Però di aver cambiato piede mi sono accorto solo quando ho visto la televisione».

Destro, sinistro: dilemma ininfluente, allora, per una nazione mandata in delirio da quella giocata sublime, epilogo di un incontro drammatico ed esaltante che il telecronista Nando Martellini a caldo così commentò: «Rivera, rete! Rivera ancora, 4-3, 4-3 gol di Rivera! Che meravigliosa partita ascoltatori italiani. Non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni che ci offrono...». Eppure, al contrario dei tifosi, i protagonisti non si resero subito di aver compiuto un’impresa epica. «La sensazione importante — conferma Rivera — l’avemmo quando cominciammo a telefonare ai familiari a casa, che ci dissero che la gente era scesa in piazza per festeggiare unita come mai era accaduto prima, senza guardare i colori politici».

Eppure Rivera non sembra particolarmente emozionato nel ricordare. «Che effetto mi fa oggi tutto questo? Quell’emozione — dice — ormai è sparita, è passata. So che è successo e in questi giorni mi sono riabituato a parlarne. In campo non mi sono mai emozionato, perché per me il campo di gioco era la cosa più importante. Certo non ho dimenticato: è difficile dimenticare una partita come quella, quei supplementari… Ma non c’era modo di dimenticarsene: la televisione l’ha fatta rivedere spesso, se non tutta, almeno i gol».

Di certo non l’hanno dimenticata i tifosi italiani. Quelli che la vissero in diretta — erano le 16 a Città del Messico, le 23 in Italia — attraverso le immagini un po’ sbiadite delle televisioni ancora in bianco e nero e quelli che, non ancora nati o troppo piccoli, ne hanno sentito parlare dai loro padri o fratelli. «Però non era stata una partita entusiasmante quella dei tempi regolamentari», rammenta Rivera, che aggiunge: «Siamo andati in vantaggio presto, poi abbiamo subito gli attacchi della Germania, che era una grande squadra e tentava di pareggiare. Avevamo retto fino alla fine, poi all’ultimo momento abbiamo dovuto cedere».

Infatti la beffa arriva a una manciata di secondi dal fischio finale. «Già, era quasi finita quando Schnellinger fa l’unico gol della sua vita in nazionale. Lui — ricorda l’allora suo compagno e capitano al Milan — in realtà era vicino alla nostra porta perché c’era l’ingresso degli spogliatoi: aveva capito che la partita stava terminando e per non incrociare gli sguardi dei suoi compagni di squadra del Milan voleva filar via subito dopo il fischio dell’arbitro. Però quando è passato da quelle parti, ha visto che la palla arrivava lì, si è tuffato col piede piatto e l’ha messa in rete, pareggiando. Così ci ha fatto rifare tutto».

Anche questo forse era già scritto. Come i successivi gol di Müller, di Burgnich, ancora di Müller e quello, bellissimo, di Riva, fino all’epilogo. Ma come c’era arrivata l’Italia a quella semifinale? «Partita dopo partita. Avevamo un bell’ambiente — rammenta Rivera — e stavamo bene insieme; ci si parlava, si chiacchierava, eravamo sereni e quindi ogni volta che disputavamo una partita l’affrontavamo con la concentrazione giusta. E infatti siamo arrivati alla semifinale nel modo migliore possibile. E anche quella poi è stata vissuta in modo eccezionale da tutti noi».

Ma allora, la storia della staffetta Mazzola-Rivera? «Prima di quel mondiale e dopo quel mondiale — spiega — abbiamo sempre giocato insieme e quindi voleva dire che potevamo farlo. Lì non si è capito perché si sono inventati l’alternanza. Anche i miei compagni di squadra non l’hanno capita tanto». Per la verità neanche molti tifosi, tanto che al rientro in Italia il commissario tecnico Valcareggi venne contestato. Ma per Rivera le responsabilità erano anche altre: «La colpa è stata della politica che ha avuto il sopravvento sulla parte tecnica durante quel mondiale. Si è interessata anche della formazione, di chi andava in campo e chi no. Il fatto che Mazzola giocasse il primo tempo e io il secondo senza sapere come sarebbe andata era una scelta politica non una decisione tecnica».

Ma anche la stampa, molto critica nei confronti di quella nazionale, ci mise del suo. «Certo. Anche parte della stampa partecipava a questa cosa, soprattutto la Gazzetta dello Sport. E c’erano alcuni giornali che stavano dalla mia parte e altri dall’altra». E poi c’era Gianni Brera, che le sue cronache le scriveva in prosa. «Lui era un fatto a sé — chiosa il nostro —, gli altri giornalisti non li considerava del suo livello. Li ha sempre snobbati i giornalisti sportivi». Punto. Del resto tra la celebre firma e l’“abatino”, nomignolo perfidamente affettuoso affibbiatogli proprio da Brera, in verità non c’è mai stata molta simpatia.

Ma torniamo alla staffetta. Che nella finale col Brasile neppure si concretizzò. Rivera entrò ad appena sei minuti dalla fine, al posto di Boninsegna, quando il risultato era già compromesso; assistette praticamente a quasi tutta la partita dalla panchina. Si sarà arrabbiato per non avere avuto l’opportunità di provarci, nemmeno per un tempo? «Non si cambiano i rapporti. Si eseguono le disposizioni dei tecnici. Ti piaccia o no», è la risposta secca, diplomatica dell’interessato. Insisto: ma nemmeno un po’ di rammarico, umanamente, dico? «Il dispiacere era il non giocare».

Chiusa parentesi, torniamo a Italia–Germania, che allora era solo Ovest. Tutto di quella sfida sembrava destinato a rimanere nella storia: Mexico ’70 era il primo mondiale con gli stadi tanto in alto da togliere letteralmente il fiato, il primo con un pallone ufficiale, il primo con i cartellini giallo e rosso per ammonizioni ed espulsioni, il primo con la possibilità di due sostituzioni, il primo a colori in tv (ma non in Italia). Ma era soprattutto il mondiale che avrebbe assegnato l’ultima Coppa Rimet, rimpiazzata poi dalla Coppa del Mondo Fifa. Coppa che nella finale si aggiudicò il Brasile di Pelè con un severo 4-1, vincendo la sua terza competizione iridata.

L’Italia di mondiali ne aveva già vinti due e, dopo Mexico ‘70, se ne aggiudicò altri due, nel 1982 in Spagna e nel 2006 proprio in casa dei tedeschi. Eppure il fascino di quell’Italia–Germania 4-3 non è stato superato. L’hanno raccontata registi, artisti, scrittori, giornalisti. Perché rappresenta la migliore celebrazione del calcio, lo sport più bello del mondo secondo alcuni, anche se oggi quel calcio non esiste più. Eppure Rivera, classe 1943 ma ancora pronto a rimettersi in gioco, sembra rimpiangerlo quel calcio. «Ho fatto il corso — spiega — e oggi sono allenatore di prima categoria. Se qualcuno decidesse di prendermi come tecnico, farei giocare le mie squadre nello stesso modo in cui affrontavo il calcio allora. Adesso cominciano la partita e vanno tutti indietro; se avessimo avuto quella mentalità, il gol del 4 a 3 non l’avremmo mai fatto». Quindi non ci si ritroverebbe a giocare in una squadra di oggi? «Beh, se avessi gli anni per giocare, giocherei, poi essendo come sono, cercherei di cambiare pochino». Pausa. E poi: «Mi sono rimasti impressi certi allenatori, Liedholm, Rocco, Fabbri, quelli che mi hanno colpito di più, e che anche oggi varrebbero come valevano allora». Eccola, finalmente, la nostalgia… Ma è solo un attimo.

L’ultima riflessione è sul campionato interrotto dalla pandemia e che riprenderà proprio nel fine settimana. È stata una scelta ponderata? «Questo non lo so — risponde Rivera —. Bisognerebbe chiederlo alle società. Certo questo campionato bisogna riprenderlo per forza, ne va dei soldi di tutti, delle società, dei giocatori, dei tecnici. Del resto è un ambiente in cui prima pensano ai soldi e poi iniziano a giocare. Noi prima volevamo giocare, poi pensavamo ai soldi».

L’intervista finisce. Con una certezza ancora più rocciosa: non ci sarà mai più un’altra partita così. Magari sarà “la partita” di un altro secolo. Se fosse, allora Italia–Germania 4-3 diventerebbe la partita del millennio. Almeno per quelli che l’hanno vissuta. Anche per me che allora avevo solo sei anni e mezzo, tifavo — e tifo ancora — Milan, che quella notte ancora un po’ la ricordo, sia pure sfuocata: il pianto disperato per quel gol traditore del rossonero Schnelliger e l’irrefrenabile gioia di bambino per quell’ultimo gol segnato dal mio idolo. È vero, «non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori…». Perché per alcuni Italia–Germania 4-3 non è mai finita.

di Gaetano Vallini