Giornalismo e fake news

Uno scoglio che increspa la corrente

Un collage di immagini dedicato al libro «1984» di George Orwell
23 maggio 2020

«Sono uno che si ferma / che rammenta certe cose da salvare / uno scoglio che increspa la corrente / che va contenta solo dell’andare» (Alessandro Parronchi).

C’è qualcosa di poetico e contemporaneamente di molto concreto nel Messaggio di Papa Francesco per la 54ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, sviluppato attorno a due parole chiave: racconto e memoria, a partire dal versetto del libro dell’Esodo: «Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria» (10, 2). La vita si fa storia. La narrazione non è certo attività esclusiva dei giornalisti, ma il giornalismo è fatto di racconto, anche se si contraddistingue da altre forme di narrazione per la materia di cui si occupa, che non è invenzione, ma ha a che fare con la realtà, guardata, interpretata e resa dall’occhio del giornalista, teso — così si spera — alla ricerca e alla trasmissione della verità dei fatti.

Parola impegnativa, la verità, al tempo delle fake news in cui spesso capita di leggere o ascoltare e di sospettare: “sarà vero?”.

Nei giorni della grande paura collettiva per la diffusione del coronavirus partito dalla Cina, tra i servizi più utili, sia televisivi che su web o carta stampata, non c’erano solo quelli che trasmettevano notizie corrette e verificate, ma anche quelli che servivano a smontare le tante fakes circolanti, con tanto di grafiche a bollarle come “false”.

Questo significa — è facile e intuitivo rendersene conto — che in alcune circostanze sembra non bastare più il giornalista che “costruisce” informazione di qualità, ma serve anche quello che “distrugge” e segnala le notizie spazzatura.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a proposito del coronavirus ha segnalato da subito il pericolo di un fenomeno detto infodemia, cioè un’abbondanza di informazioni, non tutte accurate, che «rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno».

Facebook, in tale occasione, ha reagito «per rintracciare e rispondere a falsi miti e voci» sul virus di Wuhan, impegnandosi a sostenere le campagne di informazione corrette delle autorità sanitarie globali. Antonello Riccelli, direttore del sito Ucsi.it (Unione cattolica stampa italiana), ha invece ricordato che per i giornalisti professionali, baluardo finale della verità, bastano le poche regole di sempre: «Prudenza e verifica accurata, in tutti i casi. Ma soprattutto quando si affrontano temi che investono la salute pubblica e che possono influenzare e persino condizionare i comportamenti».

Solo se si resta credibili, ha concluso, c’è una speranza di “sopravvivenza” per chi fa informazione.

Nel suo messaggio all’Ucsi, in occasione del sessantesimo anniversario dell’associazione, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha citato, come una ricetta semplice, una massima di George Orwell: «In tempi di menzogne universali dire la verità è un atto rivoluzionario», e ha richiamato, in questo tempo in cui la disinformazione è diffusa soprattutto via web, l’accresciuta responsabilità che ricade sugli operatori professionali dell’informazione, chiamati a coniugare responsabilità e verità, senza mai dimenticare che l’informazione è elemento fondante di una società libera e democratica.

L’invito a un’informazione «incondizionata e non omissiva anche di aspetti che possono contrastare con una personale visione del mondo» diventa richiamo all’onestà intellettuale e al senso di responsabilità nei confronti di una comunità, per consentire quel clima di fiducia tra giornalista e lettore «che permetta al cittadino di accogliere come un arricchimento la mediazione del professionista, in un tempo in cui la pretesa della disintermediazione in ogni ambito della vita civile sembra prevalere».

di Vania De Luca