Il bestiario contemporaneo di Davide Rivalta

Una violenta tenerezza verso il vivente

Leone di Davide Rivalta al Quirinale
09 maggio 2020

Il nostro viaggio tra scultori italiani si ferma davanti alle bestie di Davide Rivalta. La “animalità dei suoi animali”, dicono giornalisti e commentatori non sapendo che dire dinanzi alla gravità o alla eleganza dei suoi ghepardi, bufali, lupi, orsi o aquile piazzati dove non te li aspetti. Altri legano la sua opera a nuove correnti di pensiero biofilosofiche. E poi la mettono sul semplice, dicono: «Rivalta così contesta una visione antropocentrica del mondo». Ma io non ne sono sicuro.

Sono corpi immobili di animali, ricreati in alcuni casi con tecniche antichissime, in altri con materiali nuovissimi. Ormai queste creazioni sono apparse in tantissimi luoghi, dalla facciata della Galleria d’Arte Nazionale di Roma alle spiagge caraibiche, dalle stanze di musei a spazi creati di land art in vari siti italiani e stranieri. Sembrerebbe, andando dietro all’incubo di Arturo Martini sulla fine della scultura, lingua morta poiché non più pubblica, che Rivalta abbia trovato una strada, che i suoi bestioni bestie e fantasmi di bestia abbiano riaperto una via portando sulla loro groppa tutta la stanchezza delle umane arti ma anche la loro gloria, e pure portando tutta la ironia di cent’anni e passa di arte come “oggetti-fuori-posto” ma anche la sua consumazione.

Il suo è infatti un gesto che non comunica solo pallida emozione intellettuale ma la vibrazione fisica del presentarsi del tremendo. Il presentarsi del sacro è sempre tremendo, ricorda tra gli altri Rudolf Otto, o scrive a proposito dei suoi angeli Rilke. Nelle bestie di Rivalta è come se l’altezza di glorie e retoriche che alzavano il tono dei monumenti pubblici dove la gloria era sempre e solo umana si fosse precipitata, inabissata e avesse quasi strappato a morsi di fame la radice di un altro tipo di gloria.

Non la gloria eroica, non quella patetica, ma la gloria, la manifestazione naturale, o meglio, diciamola la parola che forse i critici di Rivalta non osano, eppure è forse l’unica adeguata, per quanto povera e ormai slabbrata, nel senso di priva di labbra che la pronuncino, la parola: creaturale. Private di questa parola, le opere di Rivalta apparirebbero solo bruto gesto iper-ironico, e molti stoltamente le plaudono per questa lettura povera. Invece la gloria che in quei corpi vibra per capacità della sua mano e dello sguardo d’artista è quella della creatura, o meglio della creatura guardata da un’altra creatura.

Al di là della facile retorica sulla critica all’antropocentrismo che qualcuno vuole vedere, credo dunque che la medesima possibilità di esistenza dell’opera d’arte di Rivalta stia in uno spostamento, più che in una negazione, o vogliamo chiamarla laica e perciò veramente religiosa conversione. L’apparire nudo e potente di queste opere ci sposta dall’orgoglioso antropocentrismo di lunga scia greco-romana e  rinascimentale, epoche d’oro della scultura gloriosa, al recupero, ma fatto in avanti, di una visione di uomo creatura tra le creature.

Credo che fosse questa la radice della insoddisfazione e del non finito di Michelangelo, artista che non volle aderire del tutto a quella retorica gloriosa, quasi disfacendola per tensioni interne. Lo sguardo di una creatura distinta dalle altre — come lo sguardo artistico testimonia di per sé — ma tra esse partecipante di un medesimo soverchiante mistero. La creaturalità che l’uomo medievale immerso in bestiari e selve aveva conservato per via di visione della natura e della fede, per via di senso del sacro proveniente dalle più antiche testimonianze di pittura umana, tra lo spavento della bellezza e la ammirazione e la lettura simbolica di quegli esseri che l’uomo arcaico aveva intorno.

Il bestiario contemporaneo di Rivalta, attraversando secoli e tecniche e traversando grondandone anche le seduzioni dell’arte, ci raggiunge come un salutare presente controtempo. E che il suo sguardo alle creature sia di creatura innamorata lo dimostra nel suo gesto più intimo di pittore, quando quelle sue bestie sono avvolte da una sperdutissima e quasi violenta tenerezza verso il vivente, quella che solo l’occhio umano può avere e testimoniare.

di Davide Rondoni