La testimonianza di un sacerdote ortodosso incaricato della cura pastorale in un ospedale covid a Mosca

Una tuta protettiva sopra la tonaca per portare sacramenti e speranza ai malati

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06 maggio 2020

«La malattia gli è arrivata all’improvviso. Stava soffocando, un’ambulanza lo ha portato all’ospedale. È stato curato per molto tempo e, una volta a casa in quarantena, mi ha chiesto di andarlo a trovare. Era disperato, aveva paura dell’ignoto. L’ho confessato, gli ho dato la comunione. Non andava in chiesa da molto tempo ma durante la malattia ha scoperto qualcosa che non aveva mai visto prima. Si è reso conto che doveva cambiare la sua vita. Ha rivisto il suo atteggiamento nei confronti di moglie, figli, genitori, colleghi. Nella sofferenza, una persona diventa più umile, impara la pazienza. Ciò aiuta a vedere Dio in un modo diverso, non come un giudice o un capo, ma come una persona amorevole, premurosa, che aiuta». Così l’arciprete ortodosso russo Roman Batsman, rettore della chiesa della Trinità Vivificante presso l’Istituto di ricerca in medicina d’urgenza Sklifosovsky a Mosca, racconta al quotidiano «Moskovski Komsomolets» la prima visita a un paziente affetto da coronavirus. Una laurea all’Istituto di geodesia, fotografia aerea e cartografia, poi all’Istituto teologico ortodosso di San Tichon. Da allora, ha esercitato il suo sacerdozio negli ospedali per ventidue anni, cappellano prima presso l’ospedale municipale n. 1, ora allo Sklifosovsky e al centro cardiologico Bakulevsky.

Nell’intervista — ripresa e commentata da padre Jivko Panev per Orthodoxie.com — Batsman spiega com’è cambiata, anche, la sua vita dall’inizio della pandemia, costretto a indossare sopra alla tonaca, all’epitrachelion e alla croce una tuta protettiva che lo copre dalla testa ai piedi, rendendolo irriconoscibile, una specie di astronauta. In preghiera, attraversa le stanze dei malati, confessa, dà la comunione. A fine marzo, in seno al Dipartimento sinodale caritativo della Chiesa ortodossa russa, è stato formato un gruppo speciale di ventuno sacerdoti, pronti a fornire questo servizio ai malati di covid-19, negli ospedali e soprattutto a casa. «Abbiamo partecipato a seminari e incontri di formazione. Un epidemiologo ci ha spiegato come usare i dispositivi di protezione individuale. Abbiamo gradualmente imparato a indossare tute protettive, copriscarpe, guanti, maschere, occhiali», precisa l’arciprete, descrivendo quanto sia insolito distribuire i sacramenti vestiti con una tuta protettiva, prendere in mano il Vangelo e fare il segno della croce con i guanti, mentre la maschera per il caldo si appanna.

«Un paziente affetto da coronavirus, che di recente ho visitato a casa sua, stava per fare testamento. Mi ha chiesto di prendermi cura della sua famiglia, dei suoi figli, che non li lasciassi, che li sostenessi in ogni modo possibile. Aveva un forte dolore ai polmoni. Gli mancava l’aria. I suoi parenti hanno aperto la finestra, ma non ha funzionato, ha continuato a soffocare [...] Le persone in questa situazione hanno enorme bisogno di sostegno spirituale. Vedono che non hai paura, che ti siedi accanto a loro, gli parli e loro stessi perdono la paura di fronte all’ignoto». Le storie nel racconto di padre Roman si susseguono: «Mi ricordo di un uomo anziano. Mi chiamò per battezzarlo. Gli spiegai che per farlo doveva credere che Gesù Cristo è Dio, divenuto uomo per salvare gli uomini dal peccato e dalla morte eterna, che doveva creare con Dio un’alleanza speciale, una relazione speciale. Dopo un dialogo di circa quindici minuti, disse: “Mi fido di te, credo nel Dio in cui credi”. Ho iniziato a battezzarlo e durante il rito è morto, davanti ai miei occhi. Questa cosa mi ha veramente colpito».

Il sacramento del battesimo, anche per gli ortodossi, può essere celebrato in casi eccezionali da qualsiasi cristiano, medici compresi: «Abbiamo avuto casi del genere in ospedale. Il paziente stava morendo, non c’era tempo di aspettare il prete. Molti dottori dell’ospedale universitario Sklifosovsky sono credenti. Chi è formato spiritualmente, lo sa. C’è una precisa formula e procedura da seguire». Il problema, dice padre Roman, è che in molti ospedali, soprattutto quelli che non hanno reparti dedicati al coronavirus, non concedono ai sacerdoti l’autorizzazione a entrare nella zona “rossa”. In alcune strutture «molti credenti muoiono senza l’accompagnamento della Chiesa, senza comunione. I malati gravi chiedono l’ammissione del sacerdote ma i dottori sono obbligati a rifiutarla». Anche se spesso è tutto affidato al fattore umano, alla sensibilità dell’operatore, a chi capisce quanto in questi momenti conti l’aiuto di Dio, «allargare il proprio cuore in modo che possa contenere il dolore e la sofferenza degli altri», mettendo da parte rigidità e indifferenza. (giovanni zavatta)