Vent’anni fa moriva Gino Bartali

Un campione e tre banane

Gino Bartali, Louison Bobet e Andre Brule durante la salita del passaggio della Croce di ferro al Tour de France del 1948 durante la tappa Briançon - Aix Les Bains
02 maggio 2020

«Perché ti piace proprio Gino Bartali?» chiesi a mio padre quand’ero quindicenne  mentre adattava per me la sua bici da corsa. Oggi ricorrono i venti anni dalla morte dell’Intramontabile eppure questa domanda risuona viva più che mai in ogni angolo della terra! Ma si può sapere cosa vede la gente in Gino Bartali?

Se l’avessi chiesto a  lui, uomo schivo e scanzonato, avrei ricevuto una pacca sulle spalle, un sorriso e poco più; lo chiederò allora al Casamonti Oscar, biciclettaio che lo ebbe come garzone quando il Gino era sedicenne per poi diventarne compagno di sgambate e mentore. Sì, perché fu lui il primo a vedere in Bartali “la voglia” di pedalare, anche quando le gambe gridavano di dolore in salita, la voglia d’alzare le braccia al cielo portando la sua bici avanti a tutti.

In tanti l’hanno chiesto anche ad Adriana, l’amore della sua vita: che ha visto in lui? Lei ha visto la bellezza di un cuore raro perché sapeva solo amare, lei ha visto un uomo solare e schietto, solido e tenace di fronte a mille sfide, e fu per questo che lei si fidò  di lui anche nel silenzio, nelle assenze, nei rischi che correva nelle corse e nella vita. Si fidò anche dei suoi segreti.

Lo si può chiedere a Elia Angelo Dalla Costa, cardinale di Firenze: ha visto in Bartali uno dei suoi amici più cari. Solo a un amico puoi chiedere di affrontare con coraggio la sfida più pericolosa, quella di mettere  a rischio la propria vita per salvare tanti ebrei perseguitati dal regime nazi-fascista. Con la scusa di allenarsi sui 200 chilometri tra Firenze e Assisi trasportò per molte volte e in gran segreto documenti falsi per creare salvacondotti, nascondendoli nella canna della bici. L’avessero scoperto, lo aspettava la fucilazione immediata ma teneva sempre a mente il premio di questa incredibile corsa: era il sorriso dei tanti bimbi e delle molte famiglie a cui regalò una nuova vita. 

A Pio XII non occorrerà chiederlo perché fu lui stesso a dirlo, in un discorso tenuto agli uomini di Azione Cattolica nel 1947. Sono parole che suonano attuali e  profetiche per il momento presente. «Noi abbiamo cinque anni or sono nello stesso mese di settembre, ampiamente parlato dell’Uomo di Azione cattolica, della sua collaborazione al rinascimento spirituale della società, del suo influsso sulla famiglia, sulla vita professionale, sul mondo esteriore. I doveri, di cui allora discorrevamo, si presentano oggi a voi con una urgenza che difficilmente potrebbe concepirsi maggiore. Ognuno di quei doveri — e non sono pochi — preme con impeto ed esige il più coscienzioso adempimento, non di rado anche con atti di vero eroismo. E non vi è tempo da perdere. Il tempo della riflessione e dei progetti è passato; è l’ora dell’azione. Siete pronti? I fronti contrari, nel campo religioso e morale, si vengono sempre più chiaramente delineando: è l’ora della prova. La dura gara, di cui parla san Paolo, è in corso; è l’ora dello sforzo intenso. Anche pochi istanti possono decidere la vittoria. Guardate il vostro Gino Bartali, membro dell’Azione cattolica; egli ha più volte guadagnato l’ambita “maglia”. Correte anche voi in questo campionato ideale, in modo da conquistare una ben più nobile palma:  Sic currite ut comprehendatis (1 Corinzi 9, 24)».

​Vorrei però chiedere un aiuto anche a due persone il cui nome è rimasto nell’ombra, due persone comuni che hanno da raccontare una storia straordinaria.  La prima ci viene raccontata da un poliziotto in forza al raggruppamento della Celere Milano: «Dopo l’annuncio dell’attentato a Togliatti, il comandante del raggruppamento ricevette l’ordine di farci schierare nelle strade del centro, con particolare riguardo alla zona del Duomo. Era un pomeriggio afoso e l’atmosfera che si respirava aveva del surreale: la gente sembrava impazzita, chi piangeva, chi minacciava di scatenare una guerra (...) Tutti gli uomini del mio contingente erano armati di pistola, mitra e sfollagente: gli ordini erano di contenere ogni intemperanza della gente, ma come? Eravamo quattro gatti dispersi in un mare di folla inferocita. A un tratto, si è diffusa la voce della vittoria di Bartali in Francia: non so come, la gente che ci circondava iniziò a ridere e ad abbracciarsi, coinvolgendo anche le guardie del contingente ai miei comandi. Ci trovammo in balìa festosa di persone che, fino a un momento prima, ci avrebbero volentieri sparato».

Ma cosa aveva fatto Gino Bartali? Questa è la seconda storia, avvenuta poco tempo prima in quello stesso giorno, il 15 luglio del 1948. Gino Bartali stava correndo il Tour de France e in quella tremenda tappa si presentò tutto solo di fronte a un gigante di 2361 metri, il Col de l’Izoard che lo sfidava coi suoi tornanti impietosi di una salita micidiale. Sedici chilometri sferzati da un vento gelido che trasformava ogni goccia di sudore in fango. Pedalando colpo su colpo Bartali riuscì a staccare tutti i diretti inseguitori ma in preda allo sforzo, concentrato sui pedali trascurò di alimentarsi e s’accorse di essere prossimo a una crisi nera di fame: che fare? Gino, che non mancava mai alla parola data, rischiava stavolta di non poter mantenere la promessa fatta poche ore prima a chi gli aveva chiesto di regalare un sogno, una speranza all’Italia spaccata in due dall’attentato a Togliatti.

Nei suoi momenti di paura il suo pensiero correva sempre alla Madonna, che lui sentiva come madre; senz’altro avrà pregato santa Teresina di Lisieux che a lui, terziario carmelitano, era tanto cara. Ed è proprio qui che entra in scena un ragazzo, un tifoso al bordo della strada sterrata che correndo accanto a lui per qualche metro gli mise in mano tre banane. Che avrà visto mai questo ragazzo sconosciuto guardando Gino Bartali pedalare? Ha visto “la voglia”  di non mollare, di arrivare, di vincere, di vivere, di superarsi. Ha visto un uomo con la voglia di lasciare un segno nella storia e nel cuore dalla gente, ha visto la voglia di amare! Sì, il ciclismo non è un mestiere per Gino, ma «una missione sacerdotale cui occorre sacrificare ogni altra attività e diletto», disse  Indro Montanelli. 

​Nel 2013,  lo Yad Vashem di Gerusalemme lo proclama “Giusto tra le Nazioni” e nel 2018 gli viene intitolata una pista ciclabile di 14 chilometri nella foresta di Haruvit, in Giudea, dove pedalano anche i ragazzi di una scuola di ciclismo a lui dedicata, la «Gino Bartali Youth Leadership School».

Il 10 ottobre 2018 dissi a Papa Francesco, sorridendo: «Il nostro Oratorio di San Mattia è il primo al mondo a essere dedicato a Gino Bartali perché era uomo di sport  e di grande fede; sarebbe bello vederlo un giorno elevato agli onori degli altari». E il Papa mi rispose con un sorriso paterno e sincero, che ancor oggi serbo nel cuore. Sarebbe bello far giungere alla Chiesa, Sposa di Cristo, le voci dei tantissimi testimoni che in ogni parte del mondo vedono ancora “la voglia” più segreta e bella che Gino Bartali aveva nel cuore: quella di assomigliare a quel Campione che ha vinto la corsa più ardua, quella della Croce.

di Attilio Nostro