L’impegno del Piccolo Cottolengo don Orione di Milano nella cura degli ospiti contagiati dal covid-19

Sognando quella carezza

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20 maggio 2020

La gestione dell’emergenza sanitaria in Italia è entrata nella fase due. Questo dona un certo sollievo a tanti che iniziano a liberarsi dagli affanni e dalle preoccupazioni. Nelle strutture per persone con disabilità, però, la vita quotidiana non cambia più di tanto. Suona forte l’invito alla preghiera che Papa Francesco ha rivolto recentemente, durante la messa a Santa Marta, ricordando il lavoro difficile degli operatori sanitari, degli infermieri e dei medici. In questi complessi continueranno a persistere alcune restrizioni, almeno fino a quando il covid-19 non verrà debellato dagli ambienti interni. È quanto accade al Piccolo Cottolengo don Orione di Milano che ospita circa ottanta persone non autosufficienti, con vari deficit di natura fisica, affettiva, psichica o mentale. «In ambienti come i nostri non esiste la distanza di sicurezza, ma c’è un continuo contatto corporeo con le persone da aiutate», dichiara a «L’Osservatore Romano» il direttore dell’istituto lombardo, don Pierangelo Ondei, che ha dovuto anche affrontare la quarantena perché contagiato. «Da noi nella fase due non cambia niente: continueremo a fare tutto indossando una tuta bianca, i calzari ai piedi, i doppi guanti alle mani, la doppia mascherina e gli occhiali».

Sono almeno tredici le persone con disabilità contagiate. Tra loro ragazzi, adulti, anziani e malati di Alzheimer. «Ora — prosegue l’orionino — molto dipenderà dal fatto che si riesca a estirpare il virus dai nostri ambienti. A quel punto potremmo liberare gli operatori dai dispositivi di sicurezza e ritornare, passo dopo passo, a una relazionalità minima: una piccola carezza o un abbraccio. Quando tutto ciò sarà possibile non lo sappiamo ancora». Tuttavia le terapie attuate durante il lockdown hanno prodotto risultati incoraggianti: a metà aprile il numero dei disabili negativi al tampone era cinque volte maggiore. Considerando tutti e 306 gli ospiti della struttura, il picco dei contagi, quasi tutti privi di sintomi, aveva oltrepassato di poco quota 100, mentre i decessi correlati al virus sono stati 12 ad aprile. Tra gli operatori quattro sono stati ricoverati in ospedale, 48 sono stati sostituiti, 25 sono tornati al lavoro a maggio, mentre una quarantina sono tuttora in malattia. Sulle cifre al Piccolo Cottolengo milanese hanno scelto la trasparenza: ad aggiornare sulla situazione generale dell’istituto è proprio don Pierangelo, che periodicamente avvisa i familiari degli ospiti con un’informativa pubblicata su Facebook e su internet.

In queste settimane la vita nella struttura è stata completamente stravolta. «Oggi ad esempio — continua il religioso — per entrare in un nucleo di ospiti anziani o disabili occorre indossare la tuta repellente, la maschera, la visiera e i guanti. L’operatore diventa una figura irriconoscibile e quindi il rapporto, anche visivo, è cambiato totalmente, perché si viene riconosciuti solo attraverso la voce». Durante i primi giorni è stata una situazione traumatica, perché prima dell’emergenza c’era un rapporto fisico fatto di carezze, sorrisi, abbracci e ci si prendeva per mano, come in famiglia. «Questo ha danneggiato molto l’equilibrio degli ospiti», dice il direttore.

Un altro problema è il fatto che le persone contagiate o interi nuclei in cui c’è stato anche solo un caso di coronavirus per precauzione sono stati isolati per 30-40 giorni, periodo nel quale gli individui infetti hanno vissuto segregati nelle loro camere per 24 ore su 24. «È pesante, soprattutto per quelle persone che ancora percepiscono con lucidità tutto quello che avviene», prosegue l’orionino. «Altri ospiti, come chi ha patologie di Alzheimer o demenza senile, avvertono meno la solitudine. Per loro la realtà è meno dura, ma occorre assicurare loro amore, attenzione e cura fisica perché vanno vestiti, imboccati, messi in carrozzina e a letto»; da settimane, inoltre non vedono il mondo esterno e i parenti.

Qualcuno piange, altri si disperano e tanti chiedono quando tutto questo finirà. Certo, possono telefonare o videochiamare, vengono rassicurati e incoraggiati. «Questo, però, gli fa venire ancora più voglia d’incontrarsi e questa mancanza influisce sul mondo affettivo e sul loro equilibrio psicologico». Con l’avvio della fase due non sono riprese neanche le attività all’aria aperta. Perciò, dopo settimane di isolamento, la situazione è stata pesante e il tempo è sembrato non passare mai per gli ospiti.

Durante il lockdown la macchina organizzativa ha funzionato con un terzo di operatori in meno rispetto alla situazione ordinaria. Ad aggravare la situazione c’è la persistente assenza dei volontari, racconta don Pierangelo: «Qui al Piccolo Cottolengo ne abbiamo duecento che si prendono cura delle persone e svolgono un servizio vis-à-vis: portano fuori quelli che non hanno capacità di mobilità e parlano con loro. La loro mancanza è pesantissima». Ancora oggi non tutti gli operatori sono rientrati al lavoro perché — spiega il direttore — «la procedura richiede che prima venga fatto un tampone di sicurezza, ma le Aziende sanitarie locali (Asl) lombarde non riescono ancora a farli tutti perché il coronavirus ha investito la Regione come uno tsunami». La collaborazione con l’Agenzia di tutela della salute (Ats) di Milano era andata in crisi totale all’inizio dell’emergenza. «Da loro giungevano indicazioni su come formare i lavoratori sull’utilizzo degli strumenti di protezione individuale, ma questi dispositivi non c’erano» e gli enti preposti non rispondevano alle richieste su come ottenerli, precisa il sacerdote. Adesso, dopo un mese e mezzo, le cose stanno andando un po’ meglio. «Finalmente sono arrivate le mascherine, i camici, i guanti, le visiere. Lavoriamo con maggiore tranquillità».

I momenti più difficili sono alle spalle ma per superarli don Pierangelo ad aprile si è impegnato in prima persona. Ha indossato tuta e mascherina ed è entrato nei nuclei per incoraggiare gli operatori e aiutare gli ospiti. Tra loro, in quasi tre mesi di isolamento, è mutato anche il rapporto con Dio. «Coloro che abitualmente venivano o erano trasportati in chiesa patiscono moltissimo l’assenza di momenti di preghiera», osserva l’orionino.

Ogni mattina si continua a pregare tutti insieme, attraverso gli altoparlanti, affinché il Signore dia la forza e il coraggio «per far sì che gli operatori siano le mani della Provvidenza», sottolinea il direttore. Perciò anche questi ultimi si sono sentiti come investiti di una missione e sono passati «da una lettura orizzontale degli eventi a una più ampia, spirituale: è una prova che il Signore ha permesso e da cui dovremmo uscire in qualche modo cambiati».

La pandemia ha acceso un faro sulle strutture per disabili in tutto il mondo. Secondo la Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish) questa è anche un’occasione per ripensare l’ospitalità nelle residenze, per migliorare la sicurezza dei lavoratori, per promuovere l’indipendenza degli ospiti, l’inclusione sociale e scolastica, per rafforzare le responsabilità dei territori e delle Regioni. Secondo un’analisi di Fish sui dati Istat del 2015, le persone con disabilità o non autosufficienti presenti nelle residenze pubbliche e private sono oltre 270 mila, pari al 70 per cento del numero complessivo di ospiti: in minima parte sono minori, un quarto gli adulti, mentre l’83 per cento sono anziani privi di autonomia. Circa il 60 per cento di loro vive nell’area più colpita dal coronavirus: Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna. L’impatto della crisi sanitaria sulla quotidianità ha imposto un ripensamento delle priorità della vita. Mai come adesso, infatti, ora che molti italiani riassaporano un poco alla volta la libertà, un pensiero accorato va alle persone con disabilità, per le quali l’inizio della fase due è ancora lontana.

di Giordano Contu