Silvia Romano e l’arte della compassione

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13 maggio 2020

Quando oramai le speranze si erano quasi perse, è arrivata nel nostro Paese dominato dalla pandemia di covid-19 la meravigliosa notizia della liberazione di Silvia Romano, la volontaria sequestrata nel villaggio di Chakama, in Kenya, nell’oramai lontano 18 novembre 2018. 535 giorni, tanto è durata la sua prigionia, per mano di un gruppo di estremisti islamici affiliati ad Al Qaeda che in quelle zone dettano legge e terrore.

Su tutta la faccenda tanto si parlerà, e indagherà. In queste ore è finita sotto la lente dell’informazione, e non solo, la onlus Africa Milele, l’organizzazione per cui prestò la sua opera di volontariato Silvia. Da quanto si apprende, ma è ancora tutto da dimostrare, l’attività della onlus era svolta con una certa leggerezza e scarsa considerazione dei pericoli esistenti quando si opera in certe regioni dell’Africa. Staremo a vedere.

Quello che sconvolge in tutta questa faccenda è altro. La liberazione di Silvia Romano avrebbe dovuto produrre gioia, null’altro, invece è incredibile la sequela di reazioni, giudizi immondi, che sono piovuti da ogni angolo del Paese, che hanno vivisezionato tutta la vicenda accaduta a questa ragazza, a partire dalla sua scelta iniziale.

Un tribunale fatto di migliaia di giudici, quasi tutti operanti sui social network, ha iniziato a sentenziare. Ecco gli errori salienti che avrebbe commesso Silvia: perché mai una ragazza milanese dovrebbe andare in un altro continente per aiutare altri esseri umani? Se si vuole fare del bene basta il proprio quartiere; se si è convertita all’islam poteva rimanere in Africa; perché il riscatto dobbiamo pagarlo noi? E chi ci dice che quel riscatto non finisca anche nelle tasche di Silvia? Magari in combutta con quelli che erano i suoi sequestratori...

La lista degli orrori potrebbe continuare all’infinito.

Tutti questi giudizi partono da un dato in comune, da un comune sguardo, disumano. Perché disumano è lo sguardo dell’uomo quando non vuole vedere. Quando zittisce, sopprime la compassione che sempre dovrebbe abitare dentro i suoi occhi.

La compassione. La capacità di sentire sulla propria pelle il dolore degli altri. E questa storia è piena di dolore, basta saper guardare.

Basta osservare con cura gli occhi di Silvia, vedere quanta sofferenza comunichino, quella di una ragazza sequestrata per 18 mesi. Basta confrontare il suo sguardo di oggi a quello di un paio di anni fa, quando i fatti ancora non erano accaduti. Gli occhi di Silvia dicono tutto, ma occorre la volontà di guardarli veramente. Basterebbe questo per zittire i giudici. E se non basta il suo dolore, guardate negli occhi i tanti africani arrivati da poco in Italia, fatevi raccontare le loro storie, rendetevi conto in che condizioni si vive ancora oggi da quelle parti. Perché è senz’altro vero che la disponibilità verso il prossimo è un’attitudine che vive sempre, a prescindere dai luoghi in cui scegliamo di metterla a disposizione degli altri, ma è altrettanto vero che esistono su questa terra intere nazioni che vivono in condizioni inimmaginabili.

Senza compassione, l’uomo si erge a giudice, commettendo quella che è la negazione più chiara e ignobile del messaggio cristiano. E di giudizi la nostra epoca è bulimica, sappiamo con perfezione ciò che non va negli altri e siamo pronti a scagliarci senza pietà. Ma, per fortuna, resiste ancora un’umanità che ama e si offre agli altri. Bentornata Silvia, prenditi tutto il tempo che ti serve.

di Daniele Mencarelli