Claudio Baglioni ricorda Papa Wojtyla

Serenata romana

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18 maggio 2020

Dall'edizione speciale dell'Osservatore Romano per il centenario della nascita di Karol Wojtyla riprendiamo il testo della testimonianza del cantautore Claudio Baglioni.

La copia cartacea dello speciale può essere acquistata al prezzo di 5 euro più le spese di spedizione. Per informazioni e prenotazioni rivolgersi a: info.or@spc.va 

Serenata romana e quel “se” bello grande


Per un cittadino di Roma, non credo possano esserci onore né emozione più grandi dell’essere chiamato dal proprio vescovo — l’uomo che, in quanto tale, il resto del mondo chiama Papa — ad accompagnare, con le sue note e le sue parole, una notte così importante come quella nella quale due epoche si passano il testimone — cambiavano anno, secolo e, addirittura, millennio — e al di là della quale, si apre un evento così ricco di significati per la cristianità come un Anno Santo. Viviamo in un tempo nel quale i superlativi si sprecano. Ogni evento diventa “unico”, “straordinario”, “irripetibile”, “indimenticabile”.
Il concerto con il quale, la notte del 31 dicembre 1999, una Piazza San Pietro, piena all’inverosimile, attese — assieme a quello che sarebbe diventato san Giovanni Paolo II — lo scoccare della mezzanotte, unico, straordinario, irripetibile e indimenticabile lo fu davvero. Letteralmente. Per il mondo, naturalmente. E anche per me. Sia sul piano artistico — era la prima volta che piazza San Pietro ospitava un concerto di musica popolare; sia sul piano personale, per gli incontri, le emozioni e le riflessioni che avevano accompagnato quella vigilia. Ma anche per la vivificante illusione di aver cantato una serenata al Papa.
Sono un semplice cristiano. E un cristiano semplice. Un’anima con più dubbi che certezze; una coscienza nella quale si affollano più domande che risposte. L’incontro con Papa Wojtyła, però, fu uno di quei rarissimi incontri che riescono a far cambiare l’equilibrio tra i piatti della bilancia dell’interiorità. Stringendogli le mani, infatti, avevi la sensazione che se, fino a quel momento, la tua fede era stata figlia della speranza, lentamente la speranza cominciava a diventare figlia della fede. Una fede che il calore di quella stretta aveva il potere di tirare fuori, chiarire e rinvigorire, come per una sorta di proprietà transitiva del credere.
Di lui colpiva soprattutto la solidità. Solidità di sguardo, di postura, di portamento, di voce. Guardandolo, lo “sentivi”. E “sentendolo”, provavi l’istinto di fidarti di ciò che sentivi e, dunque, di affidarti alla persona che incarnava quel sentire. Dopotutto, se un uomo come quello aveva fede, chi eri tu per non credere o, almeno, non riflettere sul valore e sulla forza di quella fede? Mentre parlava, mi chiedevo quale delle due forze avesse forgiato l’altra: la fede o l’uomo? Era stata la vicenda umana — in un momento storico tutt’altro che facile per il Paese dal quale proveniva — a temprare la fede o la fede a temprare l’uomo e a rendere la sua vicenda così esemplare? Chi aveva reso incrollabile chi?
Ricordo la sera della sua elezione, quando — dopo che l’insolita pronuncia del suo cognome, per un istante aveva fatto pensare alla piazza che si trattasse di un Papa di origini africane — arrivò quel “se mi sbalio, mi corrigerete” che lo rese, istantaneamente, “umano” e romano. Vivevamo gli “anni di piombo”; anni segnati, in particolare, dal destino di personalità dolorose come Paolo VI e Aldo Moro, e quel sorriso ebbe il potere di cambiare intonazione al tempo, come un vento che spazza via le nubi e restituisce il cielo a sé stesso. Col tempo, Roma e il mondo impararono che quel “se (mi sbalio)” era un se bello grande. Non tanto per l’infallibilità dogmatica, quanto per la lucidità nel vedere e la determinazione nel fare di quell’uomo, il cui contributo si sarebbe rivelato determinante nell’orientare il corso della Storia, verso libertà, democrazia e umanità.
Quella notte in piazza San Pietro, mentre cantavo “Fratello sole, sorella luna”, pensai che quel Papa veniva da una terra che avevo amato in modo particolare. Anche se pochi lo sanno, infatti, la mia carriera di artista era cominciata proprio in Polonia, dove, neanche ventenne, mi ero recato per una lunga serie di concerti. Concerti, sorprendentemente, trionfali, l’ultimo dei quali proprio a Wadowice, città natale di Papa Wojtyła. In Italia, ero uno sconosciuto del quale le case discografiche non volevano sentir parlare: in Polonia ero diventato una star, con teatri pieni, tifo da stadio e fan in coda per foto e autografi. Era stata quella terra a restituirmi quella fiducia che, qui, avevo perso, e a farmi rinunciare al proposito di mollare tutto e smettere di essere ciò che sentivo di essere: un musicista.
Fu in piazza Rynek Główny a Cracovia — dove, anche se all’epoca non lo sapevo, Wojtyła era arcivescovo — che, dopo una sorta di concertino improvvisato al pianoforte di un locale all’aperto, ebbi, per la prima volta, la netta sensazione che l’aria intorno fosse del tutto diversa e che qualcosa stesse cambiando. Aspettai l’alba in piazza, circondato da centinaia di ragazzi uguali a me, come covando la segreta consapevolezza che sarebbe stata la prima di un tempo nuovo.
Come nuovo sarebbe stato il tempo che si apriva in Piazza San Pietro, la notte nella quale il Novecento lasciava il posto al Duemila e io suonavo e cantavo — voce, anima e cuore — per il mondo riunito lì, sotto la finestra accesa e la benedizione fiduciosa e forte di Giovanni Paolo II.

di Claudio Baglioni

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