Ringiovanire il mondo

Giuseppe Ungaretti nelle fila dell’esercito italiano
30 maggio 2020

Amava la giovinezza. La sentiva gridare in lui anche da vecchio, o meglio da «antico» come diceva di sé il poeta vegliardo. Sentiva l’urto, la indomabilità del sangue giovane. E la energia che lo faceva lavorare e amare fino all’ultimo «come un vent’enne». Ne sentiva la tremenda bellezza. E sentiva la giovinezza nella parola che, scavata in un abisso, scaturiva fremente di qualcosa di nascente e di giovane. Amava l’esser giovane. Che non è lo stupido sempre attuale giovanilismo, e neanche il giovanilismo che si trovò a giudicare nei tempi suoi — come nel ‘68 — ma, letteralmemte l’essere giovane.

L’essere, il fulcro ontologico del vivente, è giovane. Ovvero la novità come categoria dell’essere e del suo manifestarsi nel mondo. Il rapporto di Ungaretti con i giovani (immortalato anche in un bel documento televisivo) non nasceva solo dalla consapevolezza che è proprio del vero artista la curiosità verso ogni soffio di vita, verso il mutarsi dei gusti e dei costumi che realizzano le eterne aspirazioni umane, in una disponibilità ai movimenti del vivente e ai suoi rinnovamenti. Tale rapporto e feconda disponibilità del poeta, che si tradusse in sostegno e indirizzo a tanti giovani poeti e artisti, in mille occasioni pubbliche di discussione e conversazioni, in scambi e scritti, non si comprende se non andando alla radice della sua motivazione, che non ê mai una motivazione puramente sociologica. Vi è qualcosa che lo anima che appartiene alla stessa energia da cui trae la forza poetica.

Non a caso, Ungaretti, diceva che scopo della poesia è «il ringiovanimento del mondo». Ovvero la rinnovata percezione delle cose e di se stessi come abitati da una novità, da un fiore sempre nuovo e originante. L’essere-giovane, appunto. Per questo la sua apertura non fu mai appiattimento, non fu banale adeguamento a mode o ricerca di consenso. Mai mancò in Ungaretti un senso vasto del tempo, e proprio nel secolo che a seguito anche di scoperte di ambito psicologico e scientifico si interrogò con furia sul senso e sulla natura del tempo (da Pirandello a Bergson, da Einstein fino al cinema) lui mise in scena nella sua opera e persino nella sua stessa figura fisica la compresenza di arcaico e guizzante, di antichissimo e nuovo.

Il suo essere avanguardia, anche artisticamente, non era mai disgiunto da una consapevolezza e, di più, da una compenetrazione con l’antico. Non a caso, accanto alla valorizzazione di talenti allora giovani come Zanzotto, in Ungaretti stava la predilezione per Petrarca e addirittura l’indicazione che forse la più bella poesia mai scritta da uomo fosse un testo di Jacopone, O amore muto. Perché la giovinezza non è questione di forma o di calendario, ma di tensione. Il miracolo della poesia, ripeteva, non è il linguaggio, ovvero le qualità del lessico o delle scelte stilistiche, ma la tensione che lo abita. Tensione, appunto, che trae la sua forza e persistenza dalla giovinezza dell’essere. Quella che il poeta sentì e bramò per tutta la vita, ed espresse nella sua arte, fu tale tensione, tale permanenza di giovinezza che coincide, nell’esistenza di un uomo segnata dal dolore, con la viva nostalgia per la terra promessa.

Bramò e visse questa giovinezza dell’essere nell’attaccamento alla vita nelle trincee, scrivendo «lettere piene d’amore», nelle amicizie giovanili a Parigi aiutandosi tra ragazzi artisti come fece con De Chirico o andando, tra i soli cinque presenti, ai funerali di Modigliani. Bramò quella giovinezza dell’essere nella geniale arte di Schifano, i cui quadri regalava a una delle sue giovani amanti. Bramò tale giovinezza dell’essere nella fede ritrovata, limpida come di fanciullo. E la bramò nelle contraddizioni, comprese quelle in cui si riconosceva e che scorgeva nello scontro di forze potenti e vitali del barocco romano da lui equiparato, anzi compreso, grazie a quelle presenti nella foresta amazzonica. Come a sottolineare la uguale forza che erompe nella storia e nella natura.

La giovinezza che domina l’orizzonte di Ungaretti lo rende prossimo anche alle generazioni attuali di studenti e giovani che se pur forse hanno una posizione culturale e gnoseologica più prossima allo scetticismo montaliano, avvertono nei testi di Ungaretti qualcosa che li riguarda, che interpreta meglio della pur ammirevole artisticità del gesto poetico di Montale il fondo oscuro e meraviglioso della loro età, e la promessa insita della loro situazione. Per questo il poeta del deserto e delle trincee, della convulsa e irripetibile vita letteraria del Novecento, arriva anche ora, a cinquant’anni dalla sua morte, tra le braccia della giovinezza, come un dono prezioso, come la voce di un fratello ai ragazzi di oggi, inquieti e meravigliosi.

di Davide Rondoni