«La morte a Venezia» di Thomas Mann

Quel morbo che imbratta la tela della vita

Dirk Bogard nei panni dello scrittore Gustav Aschenbach nel film di Visconti (1971) tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Mann
02 maggio 2020

Aveva conformato la sua vita ai principi dell’etica e dell’estetica Gustav Aschenbach, un famoso scrittore tedesco protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: ma il colera, che investirà la città, verrà a deturpare la purezza e l’armonia, ovvero quei canoni classici presi a modello e concepiti come baluardo da opporre ai marosi scatenati dal destino. Le autorità del luogo, in un primo momento, cercheranno in ogni modo di occultare l’amara realtà, nel timore che essa possa compromettere i lauti introiti alimentati dall’inesausta fonte del turismo. Ma il male spazza via ogni calcolo egoistico, ogni pernicioso interesse personale, come pure si fa beffe di chi pensa di arricchirsi a detrimento di coloro che sono ignari della drammatica emergenza che li incalza. Ipocrisia, malcostume, rapporti sociali sfilacciati e logori, illusioni vibranti e delusioni cocenti: questo calderone di emozioni e pulsioni viene agitato e scosso dal diffondersi del morbo, che irride i bei sentimenti e i legami a essi ispirati.

In questo scenario gioca un ruolo nevralgico l’eterea bellezza di un ragazzo polacco quattordicenne, Tadzio, di cui lo scrittore, gravemente malato, prima si invaghirà, e poi se ne innamorerà fino alla follia. E alla morte. Quella del giovane è una bellezza da divinità greca: eppure non è immune da difetti. «I denti non erano perfetti, un po’ frastagliati e pallidi, senza lo smalto delle dentature sane». Aschenbach pensa di lui: «È molto delicato, non ha salute. Probabilmente non diventerà vecchio». Come è a suo modo profetico il colore degli occhi di Tadzio: sono di un grigio crepuscolo, come a indicare l’imminente declinare e infrangersi dei sogni più belli. Dunque non a caso Thomas Mann vuole che anche sulla bellezza più pura cali l’ombra di tristi presagi e che, al contempo, sia intaccata da qualche difetto fisico, simbolo della consapevolezza che su questa terrà non è possibile godere della perfezione più assoluta: ci sarà sempre qualche elemento che verrà a minare e a ledere l’armonia più soave.

La pestilenza a Venezia si fa anche beffe del tentativo dello scrittore di arginare i segni che sul suo aspetto hanno inciso, inclementi, sia il tempo che la malattia. Durante il viaggio in traghetto da Pola a Venezia, Aschenbach aveva riso tra sé e sé di un signore anziano che si accompagnava a un gruppo di giovani: per non sfigurare al loro cospetto, si era vestito di tutto punto ed erano evidenti gli sforzi di carattere estetico compiuti sulla sua persona in modo da apparire giovane tra i giovani. Il destino gli farà pagare il fio. Anche lo scrittore, infatti, per non sentirsi indegno di Tadzio, finirà per andare tutti i giorni dal parrucchiere, ordinandogli, tra l’altro, varie tinture per i capelli. Allora Aschenbach riandrà con la mente a quel signore del traghetto, e tra sé e sé, questa volta, non riderà più. Interviene infatti in lui quel “sentimento del contrario” elaborato, letterariamente e filosoficamente, da Pirandello, attraverso la celebre figura della vecchia “tutta imbellettata”. Di primo acchito, ella suscita un riso ilare, quasi di scherno. Ma poi, a rifletterci bene, quel suo impegno spasmodico, che può sembrare patetico, di apparire giovane a dispetto dell’età avanzata, tradisce un sentimento più profondo, un’angoscia ben motivata, una ragione che non ammette sarcasmi irriverenti. Forse Tadzio non diventerà mai vecchio, aveva appunto pensato lo scrittore: intanto sarà lui a non diventarlo, per quanto in età matura. La pestilenza darà il colpo di grazia a un fisico da tempo minato dalla malattia e a uno spirito fiaccato da un’indolenza di sapore decadente, riflesso di una temperie culturale dell’Europa — denuncia Thomas Mann — caratterizzata dalla ricerca affannosa e disordinata di nuovi stimoli e di nuovi orizzonti.

Lo scrittore, che vedeva la sua vita volgere lentamente al tramonto, era ghermito dalla «paura di artista di non portare a termine l’opera», quel timore che «l’orologio giunga alla fine della carica prima ch’egli abbia terminato il suo compito e dato tutto sé stesso». Nello stesso tempo Aschenbach era sostenuto dalla convinzione che «tutto ciò che esiste al mondo di grande è una manifestazione di resistenza». Una convinzione divenuta poi «la formula della sua vita e della sua gloria, la chiave dell’opera sua». Ma a indebolire irrimediabilmente questa «resistenza», ovvero tale nobile sentire che contiene in sé qualcosa di eroico, interverrà la pestilenza, come a imbrattare la tela della vita che si voleva, pretesa prometeica, senza macchia. Malinconicamente lo scrittore si spegnerà mentre per l’ultima volta contempla Tadzio che, con la consueta leggiadria, cammina sulla spiaggia. Vorrebbe seguirlo, come aveva fatto tante altre volte. Ma questa volta non ce la fa. Era seduto, prova ad alzarsi ma si accascia su un fianco. Arriva qualcuno a soccorrerlo. Viene portato in camera sua. «E il giorno stesso il mondo apprese con reverente commozione la notizia della sua morte».

di Gabriele Nicolò