Nell’opera di Mario Pomilio

Quel cristianesimo dal sapore antico

Francesco Paolo Michetti, «La figlia di Jorio» (1900, particolare)
06 maggio 2020

Mario Pomilio è scrittore abruzzese non solo per nascita, ma perché in Abruzzo s’è formato e vi è restato sempre legato fino alla fine della sua vita, come Silone, non come Benedetto Croce, che ha rarefatto nel tempo quasi del tutto i legami con la sua terra. Silone e Pomilio, invece, sono rimasti legati alla stessa “terramara”, che ha dato loro, sebbene con grandi differenze qualitative, un’eredità che ha un decisivo filo forte comune: un cristianesimo dal sapore antico. Cristiane sono perciò le matrici di Pomilio, offertegli dall’Abruzzo, che Silone chiamava «terra di santi e di scalpellini».

Un cristianesimo dal sapore antico

Pomilio ha respirato un’aria cristiana già in famiglia. Nato ad Orsogna (Chieti) il 14 gennaio 1921, da Tommaso, un maestro elementare di fede socialista, originario di Archi (nella stessa provincia di Chieti) fu educato cristianamente dalla madre, Emma Di Lorenzo, donna di chiara fede cattolica, nativa di Magliano dei Marsi (L’Aquila). Egli è stato educato sia in terra teatina, dove è restato fino all’età di cinque anni, sia in terra marsicana, dopo che la famiglia si stabilì definitivamente ad Avezzano, dove il futuro scrittore frequentò i primi gradi di scuola fino agli studi classici, conseguendo la licenza liceale. Tuttavia, la sua preferenza era quella di trascorrere le vacanze estive ad Archi, presso la nonna paterna, potendo lì disporre di un piccolo appartamento, abitato precedentemente da uno zio prete, che si chiamava come lui. Era contento, altresì, di poter liberamente rovistare in una sua vecchia biblioteca, fornita soprattutto di pubblicazioni riguardanti la storia e la dottrina della Chiesa.

La vita e l’opera di Mario Pomilio recano, come stigma indelebile e inconfondibile, la timbratura di un Vangelo condiviso e interiorizzato, mentre manifestano, nei sensi misterici e nelle implicanze storico-esistenziali, i segni di un Battesimo che aveva ricevuto nella chiesa parrocchiale di Orsogna il 30 gennaio del 1921. Si può dire: il cristianesimo di Pomilio conserverà per sempre la freschezza delle acque battesimali: è a questa fonte che inviterà a tornare, oltre che alla prima soglia dell’era cristiana, in questo come Silone, che nei suoi libri mostra con costanza la sua ispirazione paleocristiana. Dalla lettura indagata e meditata dei libri pomiliani emergerà lo svolgimento dei sensi implicati in un ossimoro: primitivismo e sviluppo raffinato. Si sente nel suo cristianesimo l’acre sapore delle radici e la dolcezza dei frutti maturi.

Il “cristianesimo abruzzese” di Pomilio e di Silone

Come per Silone, già dal periodo della prima formazione, la problematica cristiana anche per Pomilio è decisamente centrale, sebbene le differenze fra le due visioni siano notevoli. Nel cristianesimo di Silone c’è una forte e dominante concentrazione sulla sua scelta dell’a-ecclesialità, ossia sulla possibilità di dirsi cristiano senza Chiesa. In lui è forte l’interesse per la figura di Gesù e per la forma popolare di un cristianesimo letto nell’angolatura di un’utopia prevalentemente sociale. Con evidenza, cristiano è l’asse portante della sua letteratura-testimonianza, com’egli s’esprime. Due segni vistosi lo ricordano: la quasi totalità dei suoi libri ha per temi quasi esclusivi il cristianesimo e la Chiesa; inoltre, quasi tutti i protagonisti dei suoi romanzi, drammi e racconti sono preti.

La dimensione cristiana nell’opera di Pomilio è assai più esplicita e dichiarata, più complessa ed elaborata rispetto a quella presente in Silone. Una delle distinzioni più marcate fra i due approcci alla figura e alla profezia di Gesù di Nazaret sta nel fatto che più sicuramente si può parlare di un cristianesimo abruzzese nello scrittore marsicano e meno in quello chietino. Su uno sfondo più lontano l’ispirazione di un’abruzzesità cristiana non manca neppure in Pomilio, anche se da lui è resa con un tono meno popolare e più colto: ad esempio, il senso della Croce e del perdono assai forte nell’anima cristiana delle genti d’Abruzzo di certo è presente nel cuore e nella penna di questi suoi due grandi figli, ma con modulazioni differenti. Sulle forme e le differenze delle due figure di Cristo e di cristianesimo delineate dai due scrittori abruzzesi, è utile consultare il libro di Ferdinando Castelli, Volti di Gesù nella letteratura moderna (1987).

Un breve soggiorno a Teramo, in veste di commissario agli esami di Stato, ispirò a Mario Pomilio il suo primo romanzo, L’uccello nella cupola (1954), nel quale è in molta evidenza la problematica etico-cristiana. A Teramo sarà ambientato, dieci anni dopo, La compromissione (1965), romanzo dal forte contenuto politico, non privo di aspetti religiosi, mentre appaiono marginali gli aspetti dell’abruzzesità: questa — e segnatamente nel suo risvolto cristiano — è invece robustissima e sempre presente in Silone. Tuttavia, grande è l’amore all’Abruzzo portato da Pomilio che, fra l’altro, ha voluto conoscere lembo a lembo e raccontarlo con raffinata acribia (vedi Abruzzo la terra dei santi poveri, raccolta di scritti abruzzesi a cura di Dora Pomilio e Vittoriano Esposito, L’Aquila, 1997).

Come s’è ora ricordato, nel 1954 apparve il suo primo romanzo: L’uccello nella cupola (qui utilizziamo l’edizione di Rusconi, Milano 1978). Questa è un’opera prima, non solo per lo scrittore abruzzese, ma anche per la letteratura italiana del Novecento, poiché si staccava dall’allora dominante clima neorealista, per collaborare ad aprire strade sconosciute, affrontando i temi religiosi con una spietata franchezza e, a tratti, con una grande forza, che ricordavano la grande narrativa cattolica francese.

Un cristianesimo radicale

Nel suo primo romanzo, cui qui ci si riferisce in modo privilegiato, Pomilio annuncia quale sarebbe stato il tema da lui più sentito anche in seguito: il problema religioso, non nelle forme di un oggetto da scandagliare e su cui discutere, ma nell’indisegnabile sagoma di un’esperienza che, tuttavia, sente come fondamentale e decisiva.

Infatti, la tematica religioso-cristiana è presente, oltre che nel ricordato L’uccello nella cupola (Bompiani, 1954), in tutti i suoi libri: Il quinto evangelio, (Rusconi, 1974); Il cane sull’Etna, frammenti d’una enciclopedia del dissesto (Rusconi, 1978); Il Natale del 1883 (Edizioni di Gabriele e Mariateresa Benincasa, 1983). In modo esplicito e perfino teologico la problematica cristiana è affrontata, poi, in Scritti cristiani (Vita e Pensiero, 2014).

Una nota sempre presente nei suoi libri è il radicalismo cristiano che, come un filo forte, li avviluppa e li stringe in una mai smentita coerenza. È proprio vero: il cristianesimo di Pomilio non è mai facile e scontato, né può essere pensato come una divisa distintiva in vista di una militanza.

Il suo cristianesimo è anzitutto ricerca interiore, tela tessuta e ritessuta sempre daccapo, fonte sempre novellamente dischiusa all’anima anelante ad acque vive. In lui è chiaro il convincimento credente che quella religiosa è un’esperienza totale, possibile perciò solo in condizioni di piena e integra esperienza umana: «Solo riproponendo sempre, da capo e per intero, il problema di ciò che siamo, solo esaltando a ogni istante la coscienza della nostra miseria possiamo provare veramente il bisogno di Dio e aprire il varco alla grazia e alla speranza» scrive in L’uccello nella cupola.

La fede per Pomilio non è una facile consolazione: è anche consolazione (e quant’altre mai) ma lo è dopo essere stata l’orizzonte di un vortice di crisi; lo è all’uscita da un buio e nero tunnel, come luce discreta (non accecante) eppure consolantissima e finalmente pacificante. Per questa sua nota umbratile e malinconica, Stefano Giovanardi (sull’inserto culturale di «Repubblica» del 4 aprile 1990) si è spinto ad affermare che «il suo cattolicesimo (...) era nevrotico quasi quanto quello di Manzoni, pronubo di conflitti e lacerazioni anziché di appagate contemplazioni, e certo non incline a fiduciose rose alla Provvidenza o ad affrettate consolazioni da curato di campagna». Non è accettabile la qualificazione di «nevrotico» che Giovanardi dà al cattolicesimo pomiliano: si tratta, invece, di un cristianesimo rigoroso, teso sulle corde di una testimonianza di tipo eroico e drammatico.

Grande è l’eredità di estetica e di riflessione cristiana che Pomilio ci ha lasciato ed è un privilegio e un dovere potersi chinare sui suoi scritti per raccoglierla in una consapevolezza alta, al fine di valorizzarla al massimo quale seme prezioso buttato nei terreni cristianamente fertili della terra d’Abruzzo, germinato per l’accrescimento della riflessione e per la gioia di molti.

I lati duri della fede

È in grande evidenza questa dimensione critica e problematica della fede in Pomilio. Ha conosciuto la nobile e profonda irrequietezza cristiana, che aveva percorso l’anima anche di altri scrittori d’oltralpe; per cui ha coltivato a lungo e a fondo il dubbio, quale unica matrice e condizione di una fede autentica, anche come orizzonte verso cui andare non consegnandosi ad esso in modo avvilito, con l’acume e il coraggio della stessa fede, come evidenzia Roberto Timossi nel suo libro Della fede. La certezza, il dubbio, la lotta, (Carocci, 2014). Anche sul confronto col dubbio, Pomilio conferma la sua esperienza di un cristianesimo agonico e mai rinunciatario.

Si fanno sentire fortemente in lui l’eco vibrante di Blaise Pascal e l’alito severo di Søren Kierkegaard. Dal filosofo danese ha imparato a percepire bene il conflitto cristiano, originato nell’individuo dall’inadeguatezza al divino della natura umana, conflitto che non ammette attenuazioni di tipo giustificazionista. Insomma, per nessun motivo Pomilio si lascia indurre ad allontanarsi dalla pratica di quella “condanna alla fede” che lo scrittore abruzzese sentiva di condividere con Manzoni.

La meditazione cristiana di Pomilio non evita i lati duri della fede, i problemi crocifiggenti, i punti scottanti. Già s’è accennato a questo, ma conviene operare alcune focalizzazioni. Nella sua meditazione cristiana entrano, come termini essenziali, i binomi grazia-peccato, male-Provvidenza, morte-speranza. Vi si coglie la sicura influenza di due scrittori cattolici di Francia, Mauriac e Bernanos, e, più remotamente, di Manzoni, di Port-Royal e dello stesso sant’Agostino. Influenza complessa, dunque, che nulla toglie all’inconfondibile fisionomia di Pomilio, che quell’influenza assimila e riesprime con la capacità creatrice di un vero artista, in cui si fondono sempre, in maniera inestricabile, memoria e profezia.

Al denso romanzo L’uccello nella cupola sottende il composito e reciproco tema di grazia-peccato: ne è, per così dire, il cantus firmus che lo percorre dal primo all’ultimo paragrafo. È una tematica trattata non in astratto, ma nella meditazione e nei dialoghi del suo protagonista, che è il prete don Giacomo. All’inizio del romanzo, Pomilio illumina con luce di Vangelo «la vecchia Teramo dalle sere lunghe e smorte»: «Nolite judicare. “E perché giudichi tuo fratello?” E improvvisamente gli parve [a don Giacomo] d’intendere l’origine del proprio errore, l’errore di pensare al male come a una sostanza che va annientata, quand’esso è il contrario, è un’assenza d’amore che va riempita, il vuoto che va colmato».

In questo e in altri libri di Pomilio è affermata l’esistenzialità del cristianesimo, che è una vita non una teoria o un problema da risolvere o una questione su cui discutere. Questo richiamo alla dimensione esperienziale evidenzia che anche il male è una responsabilità prima d’essere altro. Quell’«assenza» e quel «vuoto» di bene da riempire e da colmare indicano gli obiettivi che il cristianesimo si propone di raggiungere dentro gli spazi e nei tempi degli uomini. È in questo senso che si può dire, con Giorgio La Pira, che «il cristianesimo è storia e geografia».

La centralità del perdono

Lo scavo di Pomilio nell’anima cristiana si fa profondo dall’inizio della sua produzione artistica: il male non è anzitutto una sostanza a sé, ma nemmeno sta nel puro agire dell’uomo. Esso sorge e resta piuttosto in un vuoto di speranza: «Il male consiste non tanto in quel che si compie, quanto nel fatto che la somma di sentimenti che un’azione ha implicato travolge l’anima verso la disperazione. Ecco il peccato di suicidio (…) la deliberata distruzione dell’ultima possibilità di sperare».

Di fronte al male, opera dell’uomo, sta la grazia, opera di Dio e suo dono. Questa, comunque, vuole la collaborazione dell’uomo. Ci troviamo, così, dinanzi a uno degli incroci più difficili del cristianesimo: da un lato Dio deve essere lasciato nella sua condizione di Dio, ossia di assoluta eccedenza e alterità, dall’altra richiede la cooperazione umana perché, altrimenti, cadrebbe la struttura dell’alleanza, che è la insostituibile forma della salvezza scelta da Dio. Si tratta di collaborare anzitutto a togliere ostacoli alla discesa della grazia e, in più, impegnare la libertà nel cammino richiesto per compiere l’ascesa alla grazia.

Uno degli ostacoli cui si accennava è la paura di Dio per il male fatto, una paura che si fa più cupa in prossimità della morte. Il moribondo che don Giacomo corre ad assistere al suo capezzale dice: «Ho paura, padre». Don Giacomo, che spesso nel suo ministero sentiva questa espressione, prese a riflettere: «La paura: ci può essere, penso, qualche cosa che ci collochi a più enorme distanza da Dio? Ansia di pentimento, slancio di redenzione, nulla di tutto questo è più possibile, quando la paura si è impadronita di un’anima».

Tale paura da un lato è una forza paralizzante, dall’altro è una forza devastante: rattrappisce e toglie all’uomo la forza di aggrapparsi a Dio che lo può salvare. Affidarsi a Dio, buttarsi nelle sue mani è l’atto di forza che l’uomo deve saper compiere in ogni modo. Perciò don Giacomo stimola il moribondo a oltrepassare l’ostacolo della paura suscitando uno slancio d’amore verso Dio, presentandogli «l’immagine di Colui che aveva avuto anch’egli paura e aveva detto: “Perché mi hai abbandonato?” prima di dire “Io rimetto il mio spirito nelle tue mani”: e si sentì più forte, pensando che Dio si fa disarmare non solo dall’amore, ma forse più dall’umiltà di cuore e dal riconoscimento della nostra debolezza, che s’impone alla grazia e la forza ad intervenire».

Accarezzando con dolcezza la fronte del moribondo, don Giacomo invita anche sé stesso a vincere la paura e gli dice: «“Anch’io ho paura, figliolo. Se voi sapeste!” E sentì, dopo queste parole, d’aver toccato anche lui il fondo e d’aver ricominciato vertiginosamente a risalire. E comprese che solo riproponendo sempre, da capo e per intero, il problema di ciò che siamo, solo esaltando ad ogni istante la coscienza della nostra miseria possiamo provare veramente il bisogno di Dio e aprire il varco alla grazia e alla speranza».

Il muro della paura si sbreccia come d’incanto. Legge stupore e fili di sorriso sul volto del morente e comincia a dirgli le “ragioni” della speranza: «“Perché” soggiunse “ormai quel che siamo stati non conta. Conta solo la volontà di non esserlo più, e di sapersi diversi. Conta solo aver avuto paura ed essersi sentiti soli. Perché è stato detto: fatevi un cuore nuovo e un’anima nuova. E chi ha provato la solitudine, chi ha sperato il perdono, chi ha perdonato è già salvo». Il moribondo è scosso dalle parole di don Giacomo sul perdono: «“Ma come è possibile?” (…) “è possibile, sì, è possibile. Basta tentarlo. Basta solo sperarlo”». E il colloquio continua con l’espansione del perdono dal morente alla sua donna: «“Ti chiedo perdono” riuscì ad echeggiare il morente. “E questa è la pace”». Don Giacomo conclude con la sua assoluzione e raccogliendo il suo debole sì di consenso al matrimonio in limine vitae con la sua compagna.

Il perdono apice del cristianesimo

Già da L’uccello nella cupola si inscrive nelle viscere della letteratura pomiliana il tema del perdono, come esperienza possibile e doverosa sempre. È l’ossimoro sempre sotteso nell’anima e nello scritto di Pomilio: un Dio altissimo, sé stesso, sempre sé stesso, dal mistero sempre intatto, eppure vicinissimo e aperto al perdono totale verso l’uomo. È l’ossimoro che rende vibrante e teso il cristianesimo di Pomilio e, in un certo senso, anche attraente: quando l’ossimoro si spezza allora abbiamo le caricature cristiane che illustra nei suoi romanzi (il severismo senza misericordia, il legalismo senza spirito, il paternalismo senza paternità, l’orizzontalismo senza mistero).

L’aver posto il perdono al centro del cristianesimo mostra la forza teologica che sottende ai romanzi di Pomilio, a cominciare da L’uccello nella cupola. Il cristianesimo, infatti, mette il perdono nell’ordine del principio, tanto che l’espressione più specifica della missione ecclesiale concepita come carità è proprio l’esercizio del suo potere di perdono. È significativo che Cristo abbia voluto affidare alla Chiesa fra i suoi “poteri” di aiuto o meglio di redenzione (posse salvifici) quello del perdonare: un motivo è che il perdono è un’esperienza di natura materna ed è conveniente che sia esercitata dalla Chiesa, che è essenzialmente una madre. Dall’essere il perdono di natura materna discende, fra l’altro, la sua necessità.

In altri termini, se la maternità è nell’ordine del principio, è facile intendere che anche il perdono lo sia, poiché la maternità vi trova una delle espressioni tipiche e ineliminabili della Chiesa: è addirittura un principio costitutivo della vita ecclesiale e oltre che un principio di cultura dalla creatività imprevedibile. Quando Gesù dà a Pietro il «primato», gli conferisce il potere di perdonare (cfr. Matteo 16, 20). «La Chiesa è (...) la comunità di uomini e donne segnati dal peccato, ma anche dalla grazia del perdono. La Chiesa vive del perdono di Dio e perciò è chiamata a far vivere gli uomini ministrando il perdono» (vedi il testo di Enzo Bianchi Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? nella raccolta «Non vi sarà più notte». Notte della fede, notte della Chiesa. Seminario di spiritualità della Rosa Bianca Milano, 28 ottobre 1995, Brescia 1996). Il perdono non va dunque ridotto a un esercizio privato e facile, ma è un «dovere terribile (...) perdonare i nostri nemici» come scrive C.S. Lewis (Il cristianesimo così com’è, Adelphi, 1997).

Coerentemente, il cristianesimo è chiamato a partecipare alla costruzione di una cultura del perdono, in dialogo anche con le voci laiche del nostro tempo: Jacques Derrida, ad esempio, ritiene che il perdono, se c’è, non perdona che l’imperdonabile; e ritiene che solo a partire da un’etica al di là dell’etica, solo muovendo da un’etica iperbolica, che interrompa ogni economia dell’espiazione, della redenzione e del pentimento, si può scorgere l’apertura di un pensiero del perdono degno di questo nome (vedi Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, Raffaello Cortina, 2004). Pomilio entra di fatto in questo dialogo, magari senza proporselo, e considerate le sfasature temporali con quanti si sono interessati a pensare il perdono (ad esempio, Paul Ricoeur). Fra questi il più rigoroso e paradossale è proprio Derrida, che con la sua idea del perdono esteso all’imperdonabile è — a livello di enunciazione e di arditezza — portavoce della visione più vicina alla profezia cristiana sul perdono, proprio perché di profezia si tratta e non di teoresi.

L’idea pomiliana di perdono è cristiana e conosce perciò il dramma della tensione fra profezia e ragione; come peraltro anche fuori dell’ottica cristiana, non si finisce d’interrogarsi come possa essere possibile perdonare l’imperdonabile (vedi Richard Holloway, Sul perdono. Come si può perdonare l’imperdonabile?, Milano 2004).

La tenacia pomiliana nel sostenere il perdono sempre si motiva con tutte le risorse date dall’esperienza del Vangelo che significa l’ubbidienza al Mistero: queste risorse cristiane, di cui si diceva, lasciano intatto lo smarrimento razionale di chi si decide per questo tipo di perdono. Tuttavia, occorre osservare, per evitare equivoci, che l’aspetto iperbolico del perdonare l’imperdonabile, affermato da Derrida, si pone fuori dello spazio dell’espiazione, della redenzione e del pentimento ed è, per questo, estraneo alla concezione cristiana del perdono che, invece, questi tre termini assume fino in fondo. Resta comunque interessante il richiamo energico del filosofo francese a un perdonare radicale, che evidentemente il cristiano trova il modo di collocare all’interno dei punti amplissimi del concetto biblico di salvezza. Il più chiaro di tutti è: «Dio vuole che tutti gli uomini arrivino alla salvezza e alla conoscenza della verità» (in 1Timoteo 2, 4). A questa amorevole “idea fissa” di Dio, Mario Pomilio si lega come alla pietra miliare del suo cammino di uomo e di scrittore.

di Michele Giulio Masciarelli