Intervista al vescovo argentino Eduardo García

Per una Chiesa Vangelo e Spirito

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02 maggio 2020

Ma non basterà riaprire i luoghi di culto


«I paesi più vulnerabili si trovano di fronte al dilemma di morire di covid-19 o morire di fame o per altre malattie come la malaria e la dengue. La comunità internazionale potrebbe impedirlo con un piano d’azione che passi per l’aiuto, il debito, il commercio, i farmaci e la solidarietà. Per la Chiesa l’opzione per i poveri non è strategia, ma è puro Vangelo, e la misericordia è l’ambito per incontrarci con loro». Lo sa bene il vescovo argentino, monsignor Eduardo García, della diocesi di San Justo a Buenos Aires. In questa intervista a «L’Osservatore Romano» ripercorre gli aspetti principali dell’attuale pandemia da una prospettiva di «testimonianza di dedizione generosa», per amore verso chi soffre di più, che, a suo parere, permetterà che tornino a crescere la «fede e la comunione tra i fedeli».

Don Eduardo, come ha percepito in questo tempo di confinamento l’azione della Chiesa? Che deve fare la Chiesa di fronte a questa realtà?

La Chiesa possiede uno dei capitali sociali più significativi del nostro paese. Lo ha dimostrato negli anni peggiori della crisi economica e lo continua a dimostrare ora, nelle strade, con i malati di covid-19. Fin dall’inizio del confinamento, sacerdoti, religiose e laici hanno attivato centinaia d’iniziative in ogni angolo del paese. Il fine è di servire il bene comune. In questo momento le parole di Papa Francesco risultano più che mai attuali: «La Chiesa come ospedale da campo». Forse perché osservo la realtà dalla mia diocesi situata nel dipartimento di La Matanza dove, sebbene i casi di covid-19 siano pochi, dobbiamo sopportare e fronteggiare, come possiamo, i contraccolpi della quarantena nei nostri quartieri più vulnerabili. In teoria siamo tutti uguali di fronte al virus, ma in realtà, una volta che ci ha colpiti, il covid-19 rivela con crudezza le disuguaglianze e può anche accrescerle: anziani, poveri, disabili, persone fragili destinate alla solitudine e a cammini senza speranza. La Chiesa è sacramento. Vale a dire che è segno efficace e vivo di una realtà che non si vede, ma che agisce, che si sente, che si pensa, che si vuole…. Con questa certezza, oggi più che mai, la Chiesa e noi cristiani dobbiamo rendere testimonianza di dedizione generosa per amore verso chi soffre di più, creando ambiti di calma, servizio e speranza.

Dopo l’allentamento, in alcuni paesi, delle misure della quarantena, si è acceso un dibattito sulla possibile riapertura delle chiese per celebrare cerimonie con i fedeli. Crede che ci sia il rischio che la situazione attuale possa limitare libertà fondamentali dei cattolici e della Chiesa stessa?

Mi ha colpito, mi ha colpito molto in questi giorni, che sia circolato un video rivolto a noi vescovi con la frase “ridateci la Messa”. Da un giorno all’altro, sono saltate fuori correnti politiche e religiose che chiedono con insistenza e con fragore di allentare le misure di confinamento e che vogliono inserirci in un quadro di conflitto, come se fossimo una Chiesa perseguitata, situazione che si è verificata e continua a verificarsi in altri sistemi politici in varie parti del mondo. Ma non nel nostro paese. Credo che ci siano tanti profeti di sventure, che ci siano tante persone che confondono la conversione pastorale e missionaria con il relativismo morale. È molto semplice: prevenire il contagio è una responsabilità civile e cristiana. E quello che noi vescovi stiamo dicendo è proprio di adempiere alla Legge di Dio, che nel suo quinto comandamento ci ordina di custodire, promuovere e difendere la vita, di preservarla, la nostra e quella altrui: questo stiamo facendo. Credo che servirà a poco la graduale riapertura delle chiese se non ci sarà una riapertura radicale della Chiesa di fronte alla realtà. Dobbiamo fare un salto di qualità, da una Chiesa fede e sacramenti (detentrice della verità e depositaria della salvezza) a una Chiesa Vangelo e Spirito (quella di una comunità in camino). Sono consapevole che questo richiede un cambio di marcia importante per gran parte della Chiesa cattolica. Ciò che definisce un cristiano non è l’essere virtuoso od obbediente, ma il vivere confidando in un Dio vicino, dal quale si sente amato incondizionatamente e che gli ha promesso la sua presenza sempre. Non dobbiamo dimenticare mai il dovere di attenzione spirituale e materiale verso i malati, gli anziani, i poveri, i bambini e le persone vulnerabili, che sono la preoccupazione più grande della Chiesa.

I fedeli si stanno adattando velocemente alla tecnologia applicata alla Chiesa e a una partecipazione spirituale virtuale in questi giorni di confinamento dovuti al covid-19. Possiamo parlare di una nuova liturgia domestica favorita da questa situazione?

Le diverse forme d’incontro religioso nelle reti sociali e nei media come la televisione e la radio hanno operato come anti-paralizzanti di fronte alla pandemia e in quella grande festa che la Settimana santa rappresenta per i fedeli. Chiaro che è mancata la comunità, lo stare insieme. Ma oggigiorno ci sono milioni di case in cui le famiglie seguono le cerimonie del Papa in televisione, alla radio o nelle reti sociali, e questo è stata una consolazione per Francesco. Il risultato è che abbiamo cominciato ad avere chiese domestiche ovunque! Però non vorrei che si pensasse che una liturgia virtuale possa essere sufficiente per favorire l’incontro con le persone. Credo molto nel costruire comunità. La rivoluzione digitale, che è ormai chiaramente una rivoluzione antropologica, genera un legame molto superficiale, molto veloce. Noi Chiesa dobbiamo costruire legami che siano più pieni di vita — non in competizione con la realtà virtuale — che si trasformino in affetto e amore. È questa la sfida. Costruire comunità, non gruppi su WhatsApp, di rapporto vero tra gli uomini.

Crede che occorra tornare subito alla vita eucaristica?

Credo fermamente nel Signore presente nell’Eucaristia, centro e culmine della vita cristiana, ma l’Eucaristia nella vita di un cristiano non deve mai diventare una specie di self service della grazia. Se è vero che non c’è Chiesa senza l’Eucaristia, è altrettanto vero che non c’è Eucaristia senza una Chiesa. È evidente che desideriamo tornare in chiesa e pregare insieme, ascoltare insieme la Parola di Dio e lodare insieme il Signore. Speriamo che accada presto! Ma la riapertura delle chiese avverrà quando le circostanze lo consentiranno.

Che cos’è cambiato per lei in questi giorni di epidemia?

La nostra presenza nella comunità è cresciuta molto. Le mense sociali che già erano in funzione si sono dovute reinventare, e tra le molte attività che portano avanti in questi giorni ce n’è una nuova, quella di distribuire pasti alle persone senza fissa dimora nel territorio della mia diocesi. Stiamo distribuendo più di 9.000 pasti; anche così, non abbiamo ingredienti a sufficienza per cucinare ogni giorno. La risposta di molte persone che vengono a cercare un pasto non rispettando alla lettera l’isolamento è: “Non so se prenderò il coronavirus, ma sicuramente non morirò di fame”. Affiora così l’altro grande problema dei nostri quartieri: non c’è spazio sufficiente per rispettare l’isolamento necessario ad evitare i contagi. Non sempre le case sono il luogo migliore, per l’affollamento, la mancanza d’igiene… Abbiamo aperto case di accoglienza provvisorie per i senzatetto, in modo che possano isolarsi un minimo: sono passati da 1 a 100. Mi azzardo a dire che non saranno temporanee perché, una volta superata la pandemia, non li ributteremo in strada. In generale, cerco di dare speranza, di essere presente, di stare accanto ai bisognosi. Tutti dovremmo farlo.

Che cosa impareremo da questa emergenza?

È molto difficile dirlo, perché nelle situazioni difficili a volte gli uomini diventano persone migliori e a volte non imparano nulla, rimanendo nella loro torpore e stoltezza. Ma può anche essere un’opportunità per capire che non possiamo continuare così, con questo individualismo, con questa situazione in cui a valere sono solo i propri diritti alla libertà, senza pensare a quelli altrui. Riassumendo, siamo una comunità e dobbiamo fare le cose insieme, perché la qualità della vita dipende solo dal sapere come vivere insieme e non isolati.

di Silvina Pérez