LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Conversazione con il filosofo e giornalista gesuita Patrick Gilger

Parlare della verità
con amore

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07 maggio 2020

«È come se Milano, in quarantena, mi avesse chiesto di rinunciare alla versione della nostra risposta americana per timore che l’avrei messa in pratica qui: lo sforzo incessante di controllare, dominare, definire, e quindi sancire ciò che è realmente reale e veramente vero». Così Patrick Gilger, giovane gesuita statunitense, di formazione sociologo e filosofo, racconta i giorni della pandemia. È appena arrivato a Milano quando il coronavirus esplode con tutta la sua violenza travolgendo la vita quotidiana di intere regioni del Nord Italia. Patrick è venuto in Italia per completare la sua tesi e imparare la lingua all’istituto Leone XIII. Ammalato, ha trascorso due settimane in quarantena. A lui abbiamo chiesto non solo una testimonianza sulla pandemia vissuta dall’interno di uno dei suoi principali epicentri, ma anche una previsione, una prospettiva su quel che sarà il “dopo” l’emergenza, su quale tipo di mondo siamo pronti a costruire nonostante e oltre il coronavirus. «La quarantena è un atto di obbedienza — afferma — dobbiamo seguire l’esempio di sant’Ignazio e iniziare ad accettare di non essere i padroni della nostra vita».

Qual è stata la sua esperienza personale? Come ha vissuto e sta vivendo la pandemia?

Ci sono due cose da dire. Nella prima fase della quarantena qui a Milano c’erano molte restrizioni. Le persone hanno rispettato le regole, senza fare assembramenti. Tutti hanno preso seriamente la quarantena e non erano spaventati. Devo dire che per me è stato piuttosto facile ambientarmi. Potevo ancora uscire, sono andato a visitare il duomo un paio di volte. Ho seguito le regole, senza paura. Questa cosa mi è servita per farmi una prima idea di Milano, che sembra un po’ come New York. È una città ricca e viva, e ci sono tantissime persone che vengono qui da altrove. Il secondo periodo dell’emergenza è stato invece molto diverso: nelle ultime settimane ho potuto lasciare il mio appartamento soltanto una volta per andare alla posta a ritirare una lettera di mia nipote. Credo sia un immenso privilegio il fatto di poter stare a casa e non essere costretti a uscire; la possibilità di vivere in sicurezza con tutto quello che serve. Al Leone XIII siamo una piccola comunità di sette persone. Ci sono stati momenti di tensione e di sconforto. Ma ci sono stati anche momenti di grande solidarietà e gentilezza.

Ha notato differenze tra il modo europeo di affrontare la pandemia e quello americano?

Sia in Europa che negli Stati Uniti sono stati commessi molti errori da parte dei governi, e non solo. A volte le persone cercano seriamente di non fare errori, di fare tutto bene, ma non sempre tutti reagiscono allo stesso modo. E la stessa cosa vale per le istituzioni, che possono avere ottimi piani che, solo dopo, si rivelano sbagliati. Credo che una differenza fondamentale tra Stati Uniti ed Europa sia il modo in cui le persone stiano resistendo alla quarantena e al lockdown. Penso che negli Stati Uniti abbiamo purtroppo dimenticato che, insieme ai diritti e alla libertà, ci sono anche doveri e responsabilità sociali, gli uni rispetto agli altri. È vero che ci sono molti americani che obbediscono alle regole, ma ce ne sono anche molti, troppi, che non rispettano le regole e non si fidano degli esperti. Non dico che sia colpa del governo; è un fatto sociale. Capisco la rabbia per la situazione e per il blocco, ma la modalità di reagire con odio è completamente sbagliata.

Che cosa pensa dei disordini in Michigan, dove persone armate hanno occupato la sede del parlamento per protestare contro il lockdown?

Su questo non posso difendere gli Stati Uniti. Ovviamente, la violenza è sbagliata. Rispondere al lockdown in questo modo, con tale aggressività, addirittura facendo ricorso alle armi, è orribile. Dobbiamo essere in grado di passare dall’ansia isolata, che è l’anticamera della violenza, alla risposta condivisa e solidale. C’è però un punto che mi sembra importante sottolineare. La mia opinione, non solo in quanto sociologo ma anche in quanto cattolico e sacerdote, è che ci sia stato un deficit nella formazione dei fedeli alla comprensione del mondo in cui viviamo. Un segnale di ciò lo si potrebbe vedere nel fatto che in quasi ogni elezione il voto cattolico si disperde. Non c’è una direzione comune. In altri termini, la nostra identità politica è più forte della nostra identità religiosa. Non sto dicendo che la Chiesa cattolica statunitense debba per forza organizzare un partito politico dei cattolici, cosa che sarebbe quasi impossibile negli Usa. Mi piacerebbe invece che, all’interno della Chiesa cattolica statunitense, ci fossero gruppi che educano, che diano una formazione politica, che aiutino le persone a vedere le cose in un certo modo, anche se poi le persone sono libere di votare come preferiscono, in base alle loro idee. Con questo voglio dire che dobbiamo riscoprire un’educazione del cuore, non solo della mente. Alla fine, resto sempre un agostiniano: non importa quanto la nostra ragione vede chiaramente il mondo, i nostri cuori non sono controllati dalla ragione. Per agire nel mondo e fare del bene dobbiamo anzitutto educare il nostro cuore.

La pandemia ha cambiato qualcosa nel suo modo di vivere la spiritualità?

La maggior parte del tempo sento di essere come tutti gli altri e di capirli molto bene. Tuttavia, quando ascolto la voce di coloro che sono stati più colpiti dalla pandemia e capisco quanto la loro vita è cambiata, mi accorgo che esiste una differenza radicale. Io ho il privilegio di vivere ogni giorno con Dio, e questo per me, oggi, è più evidente che mai. Per me, nel pieno di questa pandemia, acquista un valore fondamentale la preghiera ignaziana “Suscipe Domine”, che è un’offerta di tutto se stesso a Dio. Penso che la ragione per cui stiamo assistendo, soprattutto negli Stati Uniti, a reazioni drammatiche al lockdown è che le persone non sono più capaci di dare e ricevere, e quindi odiano che qualcosa gli venga tolto. Con questo non voglio dire che gli americani non siano generosi. Io sono americano e penso che gli americani siano un popolo molto generoso. Siamo capaci di dare moltissimo, gli uni agli altri, e anche ad altri popoli. Ma in generale siamo generosi secondo le nostre regole. Siamo generosi soltanto con chi accetta le nostre condizioni. Dobbiamo cambiare atteggiamento, e questo è il momento giusto per farlo. La quarantena è un atto di obbedienza, una perdita della libertà. Dobbiamo rispondere seguendo l’esempio di sant’Ignazio. Egli non dice “Dio, ti do la mia memoria, la mia intelligenza, ecc.”. Egli invece chiede a Dio di prendere queste cose da lui. La fede non è mossa da un atto decisionale, ma dall’accettazione dell’azione di Dio in noi. Questo è molto profondo. Il vero agente della preghiera non è l’uomo, ma Dio. Dobbiamo seguire questo esempio se vogliamo imparare qualcosa da questa emergenza. Non siamo i padroni della nostra vita in ogni momento e in ogni situazione. Dobbiamo imparare a collaborare e donare. Io so di non essere capace di abbandonare la mia libertà da solo, soltanto con le mie forze. Ho bisogno di aiuto per farlo da parte degli altri e di Dio.

Come sarà il “dopo”? Ci saranno grandi cambiamenti sociali o tutto resterà come prima?

Penso sia difficile fare previsioni in questo momento. La ragione è che sono gli esseri umani a fare la realtà. Dio ci ha fatto per uno scopo: riposare in Lui, come direbbe Agostino. Ma siamo noi che viaggiamo insieme verso questo luogo del riposo in questo mondo. Voglio dire: siamo noi a costruire il sistema, a costruire il mondo in cui viviamo. E dobbiamo farlo, siamo costretti. Nessuno può farlo al nostro posto. Ogni grande crisi presenta all’umanità l’opportunità di fallire o di andare avanti. Onestamente, in questo momento sono un po’ pessimista. Credo che molti useranno il coronavirus per costruire un mondo peggiore. Più di 50 paesi hanno già deciso di cancellare le elezioni a causa della pandemia. La democrazia — mi sembra — sta diventando sempre più fragile, non più stabile. Radicalizzazione e populismo stanno prosperando in moltissimi paesi. Questo però non significa che la situazione sia irrecuperabile. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù afferma: “Il Padre mio opera sempre, e anch’io opero”. L’intera spiritualità di noi gesuiti è costruita attorno a questo concetto, cioè all’importanza di discernere il modo in cui Dio lavora ogni giorno nel mondo, e collaborare con lui in obbedienza. Dio sta lavorando anche adesso, in questa pandemia. Discernendo il suo agire, possiamo rendere questa emergenza un punto di partenza per cose migliori.

Proprio ieri, nella Messa a Santa Marta, Papa Francesco ha lanciato un messaggio a tutti coloro che lavorano nell’ambito dei media, sottolineando l’importanza di lavorare sempre al servizio della verità. Lei è un comunicatore, un giornalista: che cosa pensa del ruolo della comunicazione oggi?

Papa Francesco è il vero pastore, capace di guardare al mondo in modo chiaro e vedere il dolore e la paura, la gioia e la speranza negli occhi delle persone. Il Papa è in grado di comunicare in maniera così meravigliosa attraverso le sue parole, il tono della voce, i gesti, lo sguardo. Questo significa essere al servizio della verità. Dobbiamo tutti prendere esempio da lui. Soprattutto oggi, in un momento in cui il ruolo del giornalismo è molto delicato in tutto il mondo. La transizione dai vecchi media ai nuovi social media è stata radicale e drammatica, e ha creato un panorama più frammentato, nel quale ognuno crede di detenere una propria verità. La pandemia può essere l’occasione per riformare anche il giornalismo e il mondo della comunicazione. Questo chiede ai giornalisti un profondo impegno nel parlare della verità con amore, così come chiede al pubblico la capacità di porre la verità al di sopra di tutto, di tutte le preferenze. Capisco che la realtà possa essere dura da affrontare, a volte la verità può essere dolorosa, ma il significato profondo dell’Incarnazione è che Dio è immerso nella realtà, non separato da essa.

di Luca M. Possati