LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Conversazione con lo storico e filologo Luciano Canfora

Pandemia
e diritto alla cura

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14 maggio 2020

Nel suo recente saggio La scopa di Don Abbondio metteva in guardia, con straordinaria preveggenza, dalla possibilità di un evento imprevisto: uno di quegli episodi capaci di travolgere assetti apparentemente immutabili, creando una cesura nella linearità del corso della storia. La frattura tra un prima e un dopo, come emerge dallo scenario attuale, impone una riflessione sulla semina che occorre oggi per poter affermare, non solo concettualmente, il rispetto dei diritti di ogni essere umano, a partire dal riconoscimento della sua dignità, in quanto tale, come di quello del pianeta che ci ospita. Nel modello di sviluppo che intendiamo proporre alle nuove generazioni, la questione dei diritti universali trova un saldo punto di raccordo in quella che Luciano Canfora, professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista «Quaderni di Storia» (Dedalo Edizioni), definisce «alfabetizzazione di massa».

Professore, spesso, ha parlato di “moto” della storia: rispetto alle tensioni attuali, quali politiche auspica? Ritiene raggiunta la consapevolezza della necessità di un diverso modello di sviluppo?

Al cospetto della crisi sanitaria ed economica attuale avanza una inevitabile critica al principio stesso di sviluppo inarrestabile e fine a sé, o, meglio, occorre chiedersi se sia tollerabile un’escalation tecnologica “ad infinitum”. Abbiamo sotto gli occhi le implicazioni di un fenomeno incontrollato e incontrollabile: la sostituzione crescente della macchina all’essere umano, il livello d’inquinamento della Terra, giunto quasi alla saturazione, il degrado dell’ambiente naturale, quasi irreversibile, il divario tra povertà e ricchezza quasi abissale, la diffusione di nuove forme di schiavitù, negli ambiti per cui “non vale la pena” introdurre nuove macchine. L’epidemia esplosa quattro mesi fa è un drammatico indicatore di uno status quo fortemente compromesso, prodotto da strategie convergenti e concatenate.

Dove si evidenziano contraddizioni e lacune dell’agire comune e dei nostri sistemi?

Allo stato puro sono emerse contraddizioni rispetto al concetto di salute pubblica e le politiche nei confronti dei cittadini. Le leadership di alcuni paesi hanno lasciato intendere che non sarebbero state sopportabili prolungate interruzioni dei processi produttivi, in particolare quelle legate ai maggiori profitti, anche in presenza di cifre record in termini di perdite di vite umane. E, purtroppo, il costo è stato alto soprattutto nelle periferie di molte città, ove si concentrano situazioni di maggior disagio sociale: sappiamo che almeno il 70 per cento dei deceduti, in un grande paese come gli Stati Uniti, appartenevano alla popolazione afroamericana, una fascia di cittadinanza, che, in una fase di emergenza sanitaria, potrebbe non avere paritario diritto di cura e possibilità di accesso alle terapie.

Dunque, stiamo toccando con mano l’assoluta necessità di un sistema sanitario capace di garantire la salute di tutti i cittadini: un servizio ramificato sul territorio, presente laddove si annidano sacche di povertà ed emarginazione?

Occorre evitare che le persone più fragili scivolino verso l’esclusione dal diritto alla cura, perdendo la possibilità di provvedere alla propria salute e di farsi assistere. Purtroppo, in alcune zone sembra prevalere il “si salvi chi può pagarsi le cure”. Una impostazione, secondo me, immorale a cui appartiene anche un evidente ritorno al malthusianesimo, come se, a fronte dell’aumento demografico, perdesse di importanza il valore della vita umana. Un’ipotesi aberrante!

Complice di una possibile deriva è stato anche il liberismo selvaggio?

L’attuale situazione lo ha, in un certo qual modo, smascherato, in quanto fondamento di un egoismo individualistico, il cui mito è, appunto, lo sviluppo incondizionato e senza vincoli, in quanto sicura fonte di crescente profitto. Aspetto peculiare, ma anche esempio emblematico, di tale mentalità è, in alcuni paesi, l’intoccabile diritto di ciascuno a dotarsi di armi, quando non di interi arsenali. Un recente servizio fotografico ha documentato, in modo assai eloquente, ciò che cronaca ci racconta periodicamente: stragi in supermercati, scuole, luoghi di culto o per le strade delle metropoli. Stragi che si verificano anche in conseguenza della disponibilità di armi, non di rado coniugata con un individualismo superomistico. Questa forma mentis si pone consapevolmente agli antipodi di qualunque concezione filosofica che abbia a che fare con il valore della fratellanza e della unità del genere umano.

Lei è tra i massimi conoscitori contemporanei del mondo antico: quale lascito delle civiltà dei nostri padri appare oggi più durevole ed attuale?

Proprio il principio dell’unità delle genti è fortemente affermato sia dal pensiero stoico, che da quello epicureo: ed è in questo pensiero che occorre ripescare il seme da contrapporre all’impulso a discriminare, in base al censo nelle strutture educative, dai gradi elementari fino alla formazione accademica. Creare più livelli di alfabetizzazione, prevedendo implicitamente elite culturali, è un altro risultato dell’individualismo egoistico.

Se l’acculturazione di massa è condizione fondamentale per la possibilità di scelta (in ambito scolastico come in quello politico, sanitario o religioso), l’affermarsi di un criterio censitario non rischia di mettere in crisi la praticabilità stessa di questa condizione?

Sicuramente. È infatti evidente che laddove all’universalità di un diritto realmente paritario allo studio si contrappone il criterio censitario, la facoltà di scelta si snatura in vuota propaganda o consapevole auto-incensamento. Il punto è che all’egoismo individualistico si oppone, o si dovrebbe opporre, una visione della libertà come consapevolezza della necessità, e questa è una corrente di pensiero che va da Dante a Hegel. L’inveramento concreto, operativo, di tale auspicata consapevolezza è racchiuso nella battaglia, difficile, e spesso vilipesa, per “salvare il pianeta”, che è quanto dire, per “salvare il genere umano”. E lo si potrà fare, spezzando la logica che, in omaggio al profitto come valore assoluto, insegue e persegue uno sviluppo senza limiti, incurante dei costi, sia fisici che umani.

di Silvia Camisasca