Il racconto del lockdown dei rifugiati giunti in Italia con i corridoi umanitari

Non si è bloccata la speranza

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04 maggio 2020

«Coraggio Italia, tu che sei casa non solo del tuo popolo ma di tutti noi rifugiati ricordati che “Vatuttvuon” come si dice qui in Molise, andrà tutto bene». Sembra incredibile ma ad usare questa espressione dialettale per incoraggiare gli italiani — da due mesi alle prese con la dura emergenza del coronavirus e la relativa esperienza del lockdown — è una giovane rifugiata eritrea che vive a Trivento con la madre. Danait, ventenne dalla riccia e nera capigliatura al vento, è stata profuga per lunghissimi anni ad Addis Abeba, in Etiopia, e oggi fa la mediatrice culturale nella diocesi di Trivento, piccolo paesino del Molise.

È arrivata in Italia un paio di anni fa grazie ai corridoi umanitari promossi dalla Conferenza episcopale italiana, che agisce tramite Caritas e Migrantes, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, nell’ambito dei protocolli con il governo italiano. Dal 2016 ad oggi 3.000 persone hanno avuto la possibilità di entrare in Italia, Francia e Belgio tramite i corridoi umanitari. Una cifra che comprende sia i protocolli promossi dalla Cei, sia dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e Tavola valdese.

«Questo periodo — racconta Danait — mi ricorda quando nel mio Paese per sei mesi sono stata chiusa in casa senza mai uscire, con la fobia di essere catturata dall’esercito. Ogni giorno era un incubo. Noi che abbiamo vissuto in dittatura sappiamo come rispettare le regole, siamo più abituati a questo tipo di emergenze. Gli italiani un po’ meno. Li vedo abbattuti psicologicamente, perché la situazione è grave».

Un suo connazionale, Tesfaye, vive ad Erba, in provincia di Como, insieme alla moglie Aster. Ad Asmara faceva l’autista ed amava suonare il piano. Poi la fuga obbligata. Ora deve stare a casa ma ha trovato la sua dimensione anche in questa reclusione forzata: «Pulisco, studio per la patente italiana, cucino zighinì, minestrone e fagioli, metto la mascherina e tengo le distanze».

Sempre in Lombardia Johannes Simon, eritreo che ha trascorso 16 anni in Etiopia. È arrivato in Italia due anni fa, insieme ad altre 139 persone. Ora abita a Fegnano Olana, insieme alla moglie. Confessa che all’inizio l’integrazione è stata molto difficile, «la gente non ci parlava, ci sentivamo isolati, estranei. Così di fatto stavamo sempre chiusi in casa, non abbiamo imparato l’italiano». Dopo un anno sono stati trasferiti in un Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e si sono trovati bene, hanno frequentato corsi di formazione. «Ora siamo di nuovo a casa per questa emergenza ma per me non è difficile — afferma — sia perché l’ho provato, sia perché in questo modo ho la possibilità di studiare di più». «Sono rimasto sconvolto da quanto sta accadendo — sottolinea — l’Italia non se lo meritava, un Paese così accogliente, affettuoso. Spero con tutto il cuore che ne usciremo quanto prima, tutti insieme».

Più o meno dello stesso tenore, paziente e speranzoso, sono altre testimonianze. Ilham, con un velo nero in testa, vive a Piano di Sorrento e parla già con un lieve accento sorrentino. A causa del blocco delle attività ha dovuto rinunciare al lavoro come aiuto cuoca: «Bisogna stare a casa. Passiamo le giornate a guardare il telefonino. Speriamo che andrà tutto bene». Tekle abita invece a Nonantola con la famiglia e il disegno è la passione. Descrive a parole «una cosa bianca sulla bocca» per indicare la mascherina che ha dipinto. Tutti tranquilli in casa, seguono le regole.

Le prime difficoltà sono evidenziate invece dagli operatori Caritas, in prima linea nei territori. A Ragusa, ad esempio, le famiglie rifugiate con bambini si sono adeguate subito all’emergenza. La Caritas ha distribuito pc, wifi, carte telefoniche per la didattica a distanza. Chiuso il centro d’ascolto, vengono accompagnati in altro modo.

«Lo sconvolgimento provocato da questa situazione è drammatico — spiega Domenico Leggio, direttore di Caritas Ragusa — credo che nei prossimi mesi avremo molto lavoro. Perché quando dovevano partire le assunzioni c’è stato il blocco. Questo ci fa fare dieci passi indietro, perché le persone erano oramai vicine all’autonomia: un nostro ospite aveva appena iniziato a lavorare in un ristorante che è stato chiuso; un altro ha perso un tirocinio come cameriere». Leggio è preoccupato perché nel ragusano sta venendo meno anche la rete di solidarietà informale che si era creata tra famiglie locali e migranti. Con la situazione attuale e la mancanza di lavoro aumentano povertà e difficoltà per tutti: «Persone insospettabili che riuscivano ad andare avanti in questo modo, senza chiedere aiuto, ora si rivolgono a noi».

A Brescia, in una delle zone più colpite dal virus, si è verificato un vero ribaltamento della situazione: nei primi giorni del lockdown gli operatori della Caritas chiamavano i rifugiati per assicurarsi che rispettassero le regole. «Ora ogni mattina quattro o cinque di loro mi telefonano per chiederci come stiamo, come stanno i nostri genitori e nonni. Sono giorni tristi ma non ci sentiamo soli», racconta con commozione Giuditta Serra, operatrice sociale della cooperativa di Caritas Brescia che si occupa di accoglienza. Il quartiere dove è alloggiata la famiglia dei corridoi umanitari è stato colpito pesantemente dall’epidemia, per cui la vigilanza è stata fortissima e l’accompagnamento telefonico e in videochiamata è stato costante.

Smart working e tecnologia è anche il modo con cui la Caritas di Asti segue i giovani rifugiati. «Sono cambiate le modalità di comunicazione tra noi — precisa Emanuele, operatore della Caritas di Asti — le paure dei ragazzi sono tante, abbiamo dovuto chiamare ognuno per spiegare bene la situazione e capire quali comportamenti adottare. Abbiamo approfondito le paure che stanno emergendo con loro e con i volontari. Molti ci hanno dato consigli su come migliorare il lavoro in questa situazione, che porta grande stress e un cambiamento totale nelle nostre vite».

Tante di queste testimonianze sono raccolte nel sito internet Human lines che narra l’esperienza dei corridoi umanitari attraverso fotografie, audio, video, comics e videoanimazione. Fa parte di un grande progetto di ricerca intrapreso dall’Università di Notre Dame (Usa), iniziato nel 2018 e della durata di cinque anni. Lo studio, coordinato da Ilaria Schnyder von Wartensee, sta documentando il processo di transizione e integrazione di 500 rifugiati accolti attraverso il progetto dei corridoi umanitari in 45 diocesi in Italia. Il portale ospiterà anche i report e gli articoli accademici via via prodotti e una serie di informazioni utili. «I corridoi umanitari, con gli attuali numeri e senza una maggiore partecipazione dei governi coinvolti, non possono essere la soluzione — è la premessa in apertura del sito web — sono però un inizio, una via, una direzione, un modo umano di pensare la migrazione e le relazioni. Il nostro intento è studiare e raccontare questi percorsi, questi intrecci di linee».

«Studiare e raccontare le storie che emergono dai corridoi umanitari, la complessità e le dinamiche insite in un modello di accoglienza giustamente ambizioso — ci precisa la curatrice della ricerca — è il nostro modo di contribuire ad una crescita ed evoluzione del progetto, fondamentale per le persone coinvolte, per le comunità, sia dal punto di vista di crescita “tecnica”, sia a livello spirituale, culturale e sociale».

di Patrizia Caiffa