Le beate del Sacro Monte di Varese Caterina da Pallanza e Giuliana da Busto

Lungo la «via matris» della preghiera

Antonio Busca, «La strage degli innocenti» (particolare)
16 maggio 2020

C’è una strada, sopra Varese, detta via matris e dedicata alla Vergine. Più nota come via del Sacro Monte, si snoda in salita tra quattordici cappelle che raccontano il percorso di Maria. Chi la percorre, nel verde e nel silenzio con affacci su monti e laghi circostanti, può sostare a ogni cappella e assistere a quel «teatro montano» (come lo chiamava Giovanni Testori) andato in scena in epoca di Controriforma.

Negli spazi interni di ogni piccola chiesa sono visibili statue e dipinti risalenti al XVII secolo che rappresentano le tappe della vita della Vergine: episodi “misteriosi” e scanditi nella triade dei misteri del rosario — gaudiosi, dolorosi e gloriosi. I primi introdotti e separati dai secondi e i secondi dai terzi da un grande arco che fa da porta di passaggio per il pellegrino. Dalla «segreta cameretta di Nazaret in cui avvenne l’improvviso sfavillare della Luce universale, cattolica, sul mondo» (Von Balthasar, Il Rosario) alla XIV cappella dedicata all’Assunzione c’è un che di femminile nel sinuoso sentiero, ben descritto in una raffinata incisione della Fabbrica datata 1656 che lo illustra ricordando un po’ il gioco dell’oca.

Ma ancor più segnato dalla storia della religiosità femminile è il luogo in cui questo percorso fu progettato nei primi anni del 1600 e da chi ancora oggi abita il monastero situato sulla vetta di questa strada. Infatti, accanto al Santuario mariano (la XV cappella dedicata all’Incoronazione di Maria) vive la comunità monastica delle Romite Ambrosiane. Santuario e monastero, due case di preghiera attigue che dominano un piccolo villaggio appoggiato al monte e affacciato sulla città di Varese. In questa zona il culto della Vergine ha un’origine antica e nelle grotte intorno al Monte di Velate (poi Sacro Monte) in epoca medievale si aggrega una comunità eremitica primitiva a cui, attorno al 1450, si unisce Caterina, nata a Pallanza (Novara) verso il 1437. Qualche anno più tardi arrivano altre donne tra cui Giuliana da Busto (o da Verghera — località attigua alla città di Busto Arsizio — secondo alcune testimonianze contrastanti).

La loro esperienza religiosa interessa presto anche i potenti del tempo. Il 10 novembre 1474 Sisto iv, su richiesta di Galeazzo Maria Sforza, autorizza l’erezione di un monastero secondo i desideri di Caterina con la regola di sant’Agostino e le costituzioni dell’Ordine abbaziale milanese di Sant’Ambrogio ad Nemus. Il 10 agosto 1476 le religiose emettono i voti, ricevono il velo monacale nero come le Clarisse ed eleggono come prima badessa Caterina, che tenne la carica fino alla morte (6 aprile 1478). La festa liturgica è celebrata dal 1769 quando la Sacra Congregazione dei Riti la riconobbe e Clemente XIV la confermò proclamando beate Caterina e Giuliana. Ancora la liturgia ambrosiana fa memoria del coraggio e della forza spirituale di queste donne.

La badessa Benedetta Biumi, biografa di Giuliana (1427-1501), parlò della sua fuga da casa a 26 anni dove un padre “crudelazo” la maltrattava e della sua scelta di rifugiarsi presso le Romite. Ci dice inoltre che fu proprio Caterina a proporre il nuovo nome di Giuliana ricordando la martire di Nicomedia fatta tormentare e perire dal genitore pagano. Una vicenda non proprio rara in epoca tardo-medioevale, poiché la scelta di vivere da selvatiche, lontano dal contesto famigliare, fu di diverse donne, anche nobili, che in tal modo poterono optare per una vita alternativa a quella dei modelli tradizionali. Una scelta motivata sia dalla ribellione sia da una ricerca spirituale in cui la verginità simboleggiava anche la libertà rispetto a matrimoni combinati o claustrazioni imposte. Inoltre — come scrive la storica E. Schulte van Kessel — nel tempo del risveglio della religiosità e in un periodo di poco precedente alla Riforma luterana, su esempio di Caterina da Siena (scomparsa nel 1380) “nuove Caterine” puntavano a una riforma radicale. In antichissime rappresentazioni della vergine, lo stato verginale «era visto come un medium di trascendenza dei limiti tra la natura e il soprannaturale, tra il dentro e il fuori, tra il proprio e l’estraneo, tra l’uomo e la donna». A proposito di Giuliana è anche documentata la sua dedizione ai poveri: offriva loro acqua e ristoro e «si impegnò con tanta sollecitudine e gioia che arrivò a trascorrere più di 200 notti vegliando nel parlatorio da dove si distribuiva l’acqua». Ancora oggi una scritta sulla porta esterna del monastero invita i pellegrini assetati a richiedere un bicchiere d’acqua.

Chi ascende sul sentiero e raggiunge il colle è accompagnato dalle vicende che soprattutto riguardano la storia di Maria ma anche quella delle Beate. Sulla via matris e nel Santuario due spazi ricordano Caterina e Giuliana. In una piccola grotta incastonata in un muretto addossato al sentiero si scorgono due statue che rappresentano le due donne in preghiera: è un ricordo della primitiva vita eremitica che esse vissero prima della edificazione del monastero. Nel Santuario invece troviamo una cappella a loro dedicata dove, in una teca sopra l’altare sono deposte le loro salme. Piccoli, fragili corpi, che ci appaiono in sintonia con l’affresco del lato destro della cappella raffigurante la strage degli innocenti, eseguito dal pittore milanese Antonio Busca (1625-1686). Sono molte le statue e le opere artistiche che le ricordano e soprattutto quelle dedicate a Giuliana a cui la città di Busto Arsizio ha tributato memoria fin dal Settecento presso chiese e cappelle.

Ricordiamo qui altre figure femminili viventi e denominate Romite Ambrosiane dell’Ordine di Sant’Ambrogio ad Nemos. Oltre che nel Monastero del Sacro Monte di Varese esse abitano altri tre monasteri tra la Lombardia e il Piemonte. Infatti risale al 1962 la scelta (appoggiata da Paolo VI) della suora romita Maria Candida Casero che, con altre due consorelle, lascia il Sacro Monte di Varese per fondare il Monastero della Bernaga (Mb) dove nel 1967 sarà eletta Madre Abbadessa. A lei — che definiva la beata Caterina «un vero gigante, un colosso di santità, di penitenza e di sacrificio» — si deve la fondazione di altre due comunità monastiche: ad Agra (Varese) nel 1977 e a Revello (Cuneo) nel 1986. Luoghi in cui oggi si fa festa nel ricordo di donne di fertile spiritualità, lontane nel tempo ma prossime nello spirito e incoraggianti quel cammino di conversione che il sentiero della via matris simboleggia nel suo elegante percorso sacro tra terra e cielo.

di Antonella Cattorini Cattaneo